martedì 4 ottobre 2016

C’è sempre chi si appella alla “Volontà generale

IL  POLITICO  DELLA  LEGA  DI  BOSSI
SI APPELLAVA  A  JACQUES ROUSSEAU
Luca Zaia, laureato in “Scienze della Produzione animale” alla Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Udine, nominato nel 2005 vice presidente della Regione del Veneto, ministro dall’8 maggio 2008 delle Politiche agricole alimentari e forestali del governo, è stato scelto quale candidato PdL – Lega alla presidenza del Veneto il 29 marzo 2010 per la successione del governatore Giancarlo Galan.

In una intervista ha affermato: “Ricordo l’esperienza al fianco di Galan come una delle più belle della mia storia politica … Ripartirò da lì per cercare di fare ancora meglio ... Noi siamo dei manager. Il problema è l’obiettivo: il manager ragiona per obiettivi da raggiungere … A livello Veneto, penso che dobbiamo trovare l’aggregazione su un programma, sul quale cercherò di fare squadra, di fare famiglia, per realizzarlo. È il cittadino destinatario del nostro lavoro… Il Contratto Sociale di Rousseau dice che il popolo delega le istituzioni a esercitare alcune competenze”.
L’onorevole è “convinto che la Lega in questo momento sia l’unico partito che rappresenta il Contratto Sociale. Rousseau dice che il popolo delega lo Stato a gestire alcune funzioni, quindi i politici”.
Noi sappiamo – sostiene Zaia - come scrive… addirittura Jean Rousseau, che chi governa deve interpretare la volontà generale”.

L’uomo comune che legge i quotidiani italiani si chiede: “Chi è Jean-Jacques Rousseau? Cos’è il Contratto Sociale? Quali politici nel passato si sono ispirati al suo pensiero? Di chi è la Volontà Generale e dove ci portano i politici che vogliono imporla alla società civile?”.

Lo svizzero Jean-Jacques Rousseau con l’opera il “Contratto Sociale”, scritto nel 1762, manifesta il suo pensiero antidemocratico. Attraverso un patto o contratto, ciascun cittadino, in perfetta indipendenza dagli altri e dalla città, attribuisce la sua volontà al sovrano, cioè alla “volontà generale”.

L’idea del contratto sociale non è reale ma è un canone astratto di ragionamento. Si forma una struttura di pensiero che attua il mito di volontà generale. Rousseau ha l’idea di uno “stato di natura” originario dell’umanità, cioè un’antropologia ottimista. Gli uomini per il moralista svizzero hanno una socievolezza originaria deformata dalla creazione delle istituzioni sociali che impoveriscono l’umanità e creano una diseguaglianza tra gli individui.

La volontà generale per Rousseau è il popolo, cioè un essere collettivo.
Il politico della Lega Nord ha affermato: “Per citare il contratto sociale di Rousseau intendiamo rispettare il mandato che il popolo ci ha conferito e che è riportato sul programma”.

La forma di governo migliore per il pensatore illuminista del Settecento è quella democratica e nello stesso tempo ritiene che una forma così perfetta non conviene agli uomini, cioè non pensa a una democrazia rappresentativa per i cittadini. La sua volontà generale non può essere rappresentativa perché è solo un'autorità lontana dal popolo. Il contratto sociale dà al corpo politico il potere assoluto.

Il popolo nell’unità di volontà generale rappresenta se stesso. La sua autorità è un potere forte e non ha bisogno di essere controllato dal basso. Il cittadino è indipendente dagli altri e dipende dalla città, cioè tra cittadino e Stato non c'è alcuna società. Il cittadino costretto a fare quello che vuole la volontà generale in quanto non c’è possibilità di dissenso. Quest’idea che non vi sia alcuna società parziale tra cittadini e volontà generale genera nel 1794 la Rivoluzione francese.
Il terrore rivoluzionario è conseguenza dell’astrazione, cioè della sovrapposizione della ragione alla realtà. Dietro la volontà di abuso dell’astrattismo c’è la volontà di potenza degli “illuminati”. Coloro che non si piegano alla progettualità astratta della volontà generale sono piegati con la forza.
Di fronte ai problemi dell’aristocrazia invecchiata, ai privilegi di alcuni uomini del clero, gli intellettuali illuministi francesi, che rappresentano la volontà generale, evocano forze irrazionali per civilizzare la società. Si scatena il caos dei giacobini che pretendono di usare le parole di Jean-Jacques Rousseau e di plasmare la società per organizzarla.

Dopo Rivoluzione la libertà dei moderni diventa sfera privata, cioè sfera della libertà individuale.
Pierre-Joseph Proudhon, teorico francese del socialismo e lettore di Rousseau, nel 1840 con la sua opera “Che cos’è la proprietà”, sostiene che il dispotismo e i privilegi scompariranno con l’abolizione della proprietà. Il suo desiderio è quello di realizzare una democrazia federalista, cioè un patto, un contratto tra le persone responsabili che si danno delle regole, come una nuova religione dell’umanità.
Proudhon dice : “Federazione è pluralità, autogoverno, è diritto, è diritto determinato dal libero contratto; la legge, il diritto, la giustizia sono statuto e fondamento del movimento federalista.
I promotori del movimento abusano, eccedono nella loro razionalità che è pura astrazione, cioè sovrapposizione alla realtà con promesse irrealizzabili. Non si tratta più di prescindere dalla religione, come affermavano gli illuministi, ma di sostituirsi alla religione cristiana. Si prende di petto la religione cattolica e si propone di ripensare un nuovo cristianesimo come vincolo sociale a vantaggio di tutti i seguaci. La società viene divinizzata, quello che conta è la società e la persona non conta più nulla. Si tratta di trasformare la società in una forma di collettivismo.
In Italia i seguaci di Proudhon presentano il federalismo come rivolta libertaria contro l'autoritarismo. Si tratta di democraticismo.


Oggi le social democrazie seguono il pensiero di Kelsen che è stato uno degli artefici della costituzione di Vienna del 1920, dopo la Prima guerra mondiale.
Weber e Kelsen sono stati elementi fondamentali per le cause del totalitarismo. L’Europa ha vissuto le sue tragedie.

La società politica italiana ha scelto la democrazia, ha stabilito di reggersi con forma repubblicana e costituirsi in Stato, retto da norme costituzionali.
Il popolo italiano, come società politica costituita, cioè come insieme di coscienze personali che, avendo una storia in comune attestata dall’unità del linguaggio, avendo scelto di vivere insieme con giustizia e cultura civica, ha deciso, dopo la Seconda guerra mondiale, di autogovernarsi, di eleggere i propri governanti e l’Assemblea costituente che danno agli Italiani la Costituzione della Repubblica.
Nella società, prodotto di ragione e forza morale, la priorità è data dalla coscienza personale. Il popolo è fatto di persone umane che si riuniscono sotto giuste leggi e da reciproca amicizia per il bene comune della loro esistenza.

Il pensiero repubblicano democratico assegna grande rilievo alle virtù civiche. La Repubblica con l’articolo 2 della Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità.
Il cittadino, dopo le grandi rivoluzioni politiche in cui ha chiesto la libertà da tutti i legami che impediscono il suo sviluppo naturale, esige la libertà di partecipazione politica. Nella piazza pubblica è meno sentita la resistenza al relativismo etico, tramandato dalla Rivoluzione Francese, e il rapporto civile diventa anche rapporto morale.

La Carta costituzionale è l’evento fondamentale di convivenza: Il popolo italiano si dà la presente Costituzione in cui sono elencati i diritti e i doveri dei cittadini. Gli articoli elencano i principi strutturanti della società, i diritti e i doveri fondamentali e l’Ordinamento della Repubblica (Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo, Magistratura, Regioni, Provincie, Comuni, Garanzie costituzionali).
Nel momento in cui il popolo esercita il suo diritto naturale e inalienabile all’autonomia e all’autogoverno si pone come sorgente di autorità dal basso e come fondamento di politica democratica.

L’autorità risiede nel popolo che si autogoverna e trasferisce l’esercizio dell’autorità ai propri delegati parlamentari con procedure elettorali di cinque anni. I rappresentanti del popolo sono investiti di autorità in modo limitato e la esercitano in nome del popolo nella forma di potere esecutivo nel Governo, nella forma di potere legislativo nel Parlamento e nella forma giudiziaria nella Magistratura. Il popolo rende partecipi della sua autorità i suoi rappresentanti senza vincolo di mandato e questi sono responsabili nei suoi confronti e non possono emettere leggi senza il consenso dei cittadini. Il diritto di comandare è del popolo che ne trasmette l’esercizio per partecipazione a coloro che sono chiamati a comandare. Il diritto dei governanti a comandare e il dovere a rispettare la legge risiede nel fatto che il popolo investe i governanti a governare.

I cittadini avendo codici di riferimento morale lontani non possono mettersi d’accordo su cose fondamentali per cui si ricorre a procedure della piazza pubblica, ciò che conta sono le procedure, cioè le regole del gioco politico. Il problema è dato dai contenuti che sono lasciati fuori dalle regole che stabiliscono soltanto chi deve prendere le decisioni.

Il pluralismo morale richiede che lo Stato e la legge dello Stato devono lasciare ai singoli di scegliere la strada per sviluppare la loro dignità. Lo spazio pubblico è luogo di interessi e di valori. Tutto viene pubblicizzato e i valori divengono oggetto di discussione perché non possono essere misurati economicamente in quanto hanno dignità

Lo Stato ha le sue radici nella società politica, cioè è strumento del corpo politico. Nella società democratica c’è idea di socialità ascendente, lo Stato emerge come autoorganizzazione della società. Il fenomeno dello Stato è espressione al sevizio di persone, cioè è parte della società politica e deve curarsi del bene pubblico, inteso come sicurezza, istruzione e universalità della legge.
Francesco Liparulo - Venezia

0 commenti: