sabato 21 febbraio 2009

Statuto della cittadinanza imbavaglia la fede del popolo

LA LEZIONE DI DEMOCRAZIA LAICA
SOFFOCA LA LIBERTÀ DI COSCIENZA

Il politologo Gian Enrico Rusconi, docente di Scienza politica presso l’Università di Torino, ha aperto, venerdì 20 febbraio, la discussione con il Patriarca di Venezia, card. Angelo Scola, sul tema “Fede, ragione, scienza” nell’aula magna del liceo scientifico statale “Giordano Bruno” di Mestre.
“Sono preoccupato - dice il professore – la situazione è peggiorata. È possibile fare dialogo tra laici e cattolici? Negli ultimi due anni, spesso gli interlocutori cattolici si sono sottratti al dialogo, perché controllano la sfera pubblica e proclamano valori “non negoziabili”.
Io parlo in termini sociologici. Che senso ha il dialogo tra laici e cattolici? Ha senso se il laico può sostenere il principio della laicità come statuto della cittadinanza non come questione di fede.
Laicità è statuto di cittadinanza democratica. È discorso pubblico la laicità e non privato. Un conto è sfera pubblica, in cui si confrontano tutti, e un altro è discorso pubblico, mirato alla determinazione della legge.
Confuto fermamente la confusione tra scienza e discorso teologico attorno a concetto di “natura”.
In questi ultimi mesi sono successe delle cose. Il caso “Englaro” ha dimostrato il tentativo di utilizzare la legalità democratica. Si è forzata la democrazia. La vita vegetativa, secondo me, la mia razionalità, non è accettata. Io questa cosa qui non la voglio. È “bios”. Il popolo mi costringe a rinunciare alla mia… è vita quella? Secondo me, no!
Laicità è modo di concepire la vita in maniera democratica. La democrazia delle regole: visione di vita diversa. Senza un certo clima, certe cose non sarebbero venute fuori. Cattolico, attenzione, non “avere uso strumentale” in democrazia. Contestare la magistratura e la democrazia è cosa seria. C’è stato tentativo di strumentalizzare la democrazia.
Mai i cattolici sono stati tanto liberi con possibilità di farsi sentire come in questa democrazia.
Auctoritas, non veritas...”. “Auctoritasè primato. “Etsi Deus non daretur ... "
La laicità è istituzionalizzazione del principio di democrazia a livello comportamento”.
Qual è il problema che turba l’intellettuale?
Quali sono i fondamenti del suo pensiero?
Quale futuro si ritiene compatibile con le sue affermazioni?
Rusconi è vicino al pensiero critico neo-marxista della Scuola di Francoforte di cui è stato un profondo studioso?
Il docente torinese ritiene che la “questione cattolica” stia diventando la “questione della democrazia”. La Chiesa da alcuni anni altera i rapporti tra società civile e politica, perché dichiara non negoziabili i propri valori senza assumersi la responsabilità delle conseguenze che ne derivano per la funzionalità del sistema democratico.
Per la Chiesa si tratta di affrontare le “grandi problematiche etiche ed antropologiche” emerse per i “profondi cambiamenti” dei costumi, dei comportamenti e per le nuove applicazioni delle biotecnologie agli uomini. La contesa ha una dimensione privata e pubblica. La concezione dell’uomo è soltanto quella di un essere della natura, frutto dell’evoluzione oppure anche quella di una dimensione non riducibile soltanto al dato fisico?
Il professore sostiene che l’influenza della Chiesa si basa sul fatto che nella problematica bioetica viene giocata la concezione della “natura umana” che condiziona la costruzione che presiede la legislazione restrittiva sulle unioni familiari, sulla fecondazione assistita e il proibizionismo della ricerca.
La questione dell’origine dell’uomo, con le sue implicazioni scientifiche, etiche e politiche, crea, oggi, un contrasto di idee tra i credenti e i diversamente credenti che utilizzano i mezzi della comunicazione pubblica.
Da dove deriva questo scontro che investe le istituzioni religiose e gli ordinamenti politici?
Quale autorità, quale articolo di legge può rispondere alle domande: “Chi è l’uomo?” - “Da dove viene?” - “Cosa deve fare?, “Quale è il suo fine?” - “Dopo la morte cosa c’è?” - “Cosa può sapere?”.
Per capire il nostro tempo, si possono leggere le opere classiche degli antichi pensatori e vedere in esse l’aspetto antropologico, cioè l’umanità della loro epoca, il comune sentire, la considerazione dell’uomo.
Si racconta che i saggi dell’antica Grecia usassero la formula “conosci te stesso” per ammonire gli uomini a “conoscere i propri limiti e a non presumere di essere di più”. L’esortazione per alcuni riassume l’insegnamento del sapiente Socrate che aiuta ogni giovane a trovare la verità dentro di sé e non nel mondo delle apparenze. La sua condanna a morte, per corruzione dei concittadini, da parte dell’ordinamento democratico di Atene, scuote Platone: è una tragedia. Il discepolo cerca di capire l’uomo del suo tempo, studia le sue passioni, individua i diversi livelli della società strutturata, cerca le soluzioni che vanno date alla “politica”. La sua opera “Repubblica” è filosofia il cui punto di partenza è l’uomo.
Il pensiero greco si evolve e i sapienti insegnano ai loro discepoli che la riflessione su di sé, cioè l’autocoscienza, permette una conoscenza che rende l’uomo saggio e gli apre la strada del buon vivere e della felicità interiore.
Aristotele, formatosi alla scuola filosofica di Platone, descrive nelle sue opere quello che appartiene alla natura fisica che ci circonda, il principio di vita di quanto esiste nel cosmo, e la natura come sostanza, cioè come essenza.
La casa è fatta in una certa maniera per dare riparo, la sua essenza, la sua natura è quando è compita, completa. Il cavallo ha una sua natura, cioè un’essenza che è diversa dall’uomo. Il vivente è composto di natura fisica, il corpo, e di natura spirituale, l’anima.
L’animale ha una sua normalità di funzionamento, cioè una sua legge naturale. L’essere umano ha un’altra normalità di funzionamento, cioè ha un’altra legge naturale, come esplicazione della sua essenza o natura. La legge naturale è un ordine, cioè una disposizione che fa agire un animale in un modo e l’uomo in un altro modo.
L’uomo è animale razionale, cioè dotato di corporeità biologica ed è dotato di spirito, di ragione, intesa come vita dell’intelletto e volontà che gli permettono di scoprire il suo ordine e di agire per essere in pari con la legge della sua essenza. La legge naturale parte dal presupposto che esiste una natura umana, sempre uguale in ogni tempo e in ogni luogo. Questa legge, che si chiama normalità di funzionamento, deve trovare una sua espressione. Il contenuto essenziale di questa legge umana può essere interpretato osservando l’esperienza dell’uomo.
Esistono nella natura umana delle inclinazioni come il persistere nell’esistenza, proprio di ogni ente in natura, l’unione tra maschio e femmina, universale per tutti gli animali, il procreare e l’educare la prole, comune negli uomini e animali, il vivere in società con altri, propria dell’uomo, il conoscere la verità sull’assoluto, cioè fare il bene ed evitare il male.
Nella lingua greca ci sono tre termini per indicare la vita: “zoé” è la vita mediante cui viviamo, coè il principio della vita; “bios” è la vita che viviamo e conduciamo come viventi; “psyché” è il soffio vitale, l’anima.
Per natura è l’anima che comanda il corpo. La prima forma di governo è il governo dell’anima nei confronti del corpo. I rapporti tra anima e corpo sono estrapolati dal rapporto maschio-femmina. Il padre esercita l’autorità familiare.
L’uomo è un animale socievole perché è dotato di “logos”, cioè di una mente capace di sintesi, di discorso. Tra gli uomini c’è “dia-logo”, cioè interagiscono per tutte le cose che riguardano la città (polis) e questa è spazio pubblico in cui c’è interazione tra menti, volontà, cuori, emozioni. I cittadini si influenzano reciprocamente. Il luogo pubblico si tesse di discorsi, di parole. Gli uomini liberi hanno la capacità di persuadere gli altri, di esporre le proprie opinioni. C’è confronto di opinioni e la migliore viene prescelta. L’autorità politica è quella che si esercita sui cittadini che possono partecipare alle cariche pubbliche.
Per Aristotele, figlio di un medico, conta l’osservazione dell’esperienza; per lui ci sono nella città “patologie politiche da curare”. Il sistema politico è concepito come un organismo. Le istituzioni, se non vengono sottoposte a terapia, subiscono le stesse vicende dell’organismo umano. Quando trionfano le passioni, la democrazia degenera e porta alla demagogia. Il suo atteggiamento è scientifico perché basato sulla scoperta della regolarità delle osservazioni. Per lui c’è il sapere politico, la scienza vera che ha come oggetto la vita della città, il costume concreto, come gli uomini si comportano coscientemente, cioè l' "ethos"viene per primo . L’etica non è qualcosa che si può prescrivere. La politica è distinta dall’etica e questa non può essere sottomessa alla prima.
La città è comunità in cui ci deve essere amicizia civica perché tutti si conoscono e cercano il bene comune che può essere esteso al di là della città.
Platone e Aristotele cercano di scoprire ciò che sta sotto, l’elemento più profondo dell’uomo. Il primo mira alle passioni mentre il secondo vuole scoprire gli interessi non dichiarati apertamente. La loro filosofia è tentativo metodico e sistematico di far passate una politica dal piano delle opinioni al piano della verità, ciò che è nascosto deve essere fatto apparire perché gli uomini nascondono dentro di loro le verità più profonde. Si tratta di un tentativo di conoscere veramente la natura politica dell’uomo, il buon ordine politico, cioè ciò che è giusto.
Quali osservazioni si possono fare?
Aristotele ci dice che l’uomo è socievole per natura e introduce la differenza di maschio e femmina. L’uomo ha la parola che esprime ciò che è giusto e ingiusto perché ha percezione del bene e del male. Il possesso comune di questi sentimenti costituisce la famiglia. La comunità che si costituisce secondo natura, per la vita quotidiana, è la famiglia come unione di uomo e donna.
Oltre i bisogni quotidiani ci sono altri bisogni e la famiglia si unisce alle altre, formando una colonia di famiglie, un villaggio, una comunità più grande per soddisfare i bisogni più ampi. Per rendere la vita felice, cioè pienamente autosufficiente, si costituisce per natura la comunità di più villaggi, cioè la città che è comunità politica. È modello aperto perché l’uomo è socievole e vuole vivere nelle regole del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male. Non c’è famiglia e città se non c’è comunanza di ciò che è bene e male. La pura naturalità umana è trascesa verso ambiti di convivenza retta da principi morali. Per costruire la famiglia e la città ci vuole il possesso comune dei principi del bene e male. Si tratta di porre attenzione sul carattere etico della vita sociale.
L’uomo è dotato di “logos”, cioè partecipazione di principi del bene e del male. Prima vengono i valori di giusto e ingiusto e poi si genera, per natura, la famiglia e la città.
La città è anche anteriore alla famiglia nel senso che ciò che è bene comune, che riguarda tutti, ha più valore dell’interesse privato del singolo uomo. L’anteriorità del valore della città, rispetto a ciascun individuo, è giustificato dal fatto che nella comunità politica si può trovare la capacità di vivere bene, la garanzia dell’autosufficienza della vita, cioè l’autonomia di bastare a se stessa.
Ogni comunità, dalla famiglia alla città, si costituisce in vista di un bene, cioè guardando verso un fine. La comunità più alta è la comunità politica che tende al bene più alto, il vivere bene di tutti. Il bene comune è onnipresente all’attività umana in quanto gli uomini si uniscono sempre in vista di qualcosa.
Il carattere più profondo della socialità umana è di essere in dialogo costante sul bene e sul male. Su questa caratteristica entra il diritto e la giustizia che è una virtù della comunità politica. Il diritto ordina la comunità sociale in quanto è aggiudicazione di ciò che è giusto. Il giusto è il principio di giustizia che viene applicato nei rapporti umani. L’amicizia politica e la giustizia sono le due virtù che fanno vivere la città.
La tradizione politica classica pone compiti e responsabilità alla politica, cioè parte dall’idea della superiorità del governo della legge sugli uomini. La legge è ragione senza passione, cioè non fa differenza di persone, è uguale per tutti, è principio di universalità per tutti. Chi fa la legge non è il più forte ma il legislatore sapiente. La giustizia non è l’utilità, la convenienza o il vantaggio del più forte.
Gli antichi si attestano sui valori della “ragione” e non c’è idea assoluta di razionalità. Essi hanno la matematica, la geometria, l’astronomia ma il ruolo della matematica è diverso da quello che assumerà con i pensatori moderni.
Aristotele non usa la matematica per le questioni sociali dell’uomo. C’è contemplazione e osservazione delle essenze per conoscere la natura delle cose politiche e simultaneamente il buon ordine politico, cioè il “giusto”. Etica e politica costituiscono una sfera unica e non sono separate.
Platone cerca di superare il “maledel vivere e propone con il suo pensiero la buona forma di governo che si adatta a tutti i cittadini (Ateniesi, Spartani ed ad altri). La sua è apertura mentale anche quando si discorre di essenze. La sua preoccupazione mira a problemi concreti della vita degli uomini. Il saper politico è riflessione sull’esperienza politica che costituisce il dato di fatto. La riflessione cerca di scoprire le leggi immutabili, gli elementi invarianti e costitutivi. Platone capisce dalle situazioni umane che bisogna tenere presente “l’ethos”, cioè i costumi dei cittadini, le loro resistenze, le loro difficoltà quotidiane. Gli esseri umani non sono automi. Non ci sono soltanto resistenze ma anche tradizioni, costumi, usi diversi per ogni comunità. Atene non è Sparta e neanche Tebe.
Dal pensiero di Agostino di Ippona (IV-V secolo d.c.) ci viene tramandato il concetto di “popolo”, desunto dagli scritti di Aristotele, inteso come riunione di moltitudine di uomini che è ordinata e consociata dal consenso sul diritto e dalla comunione nel bene comune, cioè il popolo vive nella giustizia ed ha come fine il bene comune di tutti, nel senso che il bene comune appartiene al popolo. La politica ha senso nel momento in cui non si distacca dalla giustizia, altrimenti la politica diventa un grande ladrocinio.
Nell’antichità è assente il concetto di “persona” che gli storici attribuiscono a Severino Boezio (V-VI secolo d.c.). Il filosofo latino desume il concetto da Aristotele. Persona è “sostanza individua di natura razionale” che ha il carattere in sé e per sé, cioè è essenza individuale di natura spirituale ed è l’unico essere voluto per se stesso nell’universo, nel senso che la persona è fine e non mezzo.
La persona per Tommaso d’Aquino è sostanza intellettuale che ha il fine di realizzare se stessa secondo la sua natura. L’intelletto è capace non solo di essere pratico, cioè capace di volgersi al bene comune (privato e pubblico), ma è anche capace di essere speculativo, cioè di volgersi al Sommo Bene in cui trova il suo pieno appagamento spirituale.
L’essere umano ha una parte materiale, cioè l’individualità, e una parte spirituale che è la persona. In altri termini è la distinzione tra l’io e il sé. Fuori dello spirito umano esistono realtà individuali. L’individualità delle cose ha per radice la materia che occupa una specifica posizione nello spazio. Ogni essere fatto di materia è dotato di anima che costituisce con essa un’unità sostanziale. L’anima umana costituisce un’unica sostanza con la materia, cioè una sostanza carnale e materiale. La soggettività della persona esige la comunicazione dell’intelligenza, cioè di comunicare con gli altri. L’uomo è veramente persona nella misura in cui lo spirito domina le passioni.
La società è una società di persone, cioè l’unità sociale è la persona che ha dei bisogni materiali e chiede di svilupparsi con il concorso degli altri, cioè aspira a essere trattata nella società come una persona.
Tommaso d’Aquino considera la “Politicadi Aristotele come “scienza civile” che affronta i problemi della “civitas”, cioè cerca di osservare la vita della società politica, concepita come la più alta costruzione della ragione perché è costruita da uomini che comunicano tra di loro. La comunicazione nel vivere bene è lo scopo della vita sociale. Si tratta di affermare la qualità morale e non il luogo fisico in cui vivono gli uomini.
L’essenza della politica per gli antichi e per il Medio Evo risiede nella giustizia. Lo scopo della politica è il bene comune.
Il paradigma fondamentale, la natura propria della politica è nella giustizia che viene prima del potere della forza..
Con l’età moderna, cambia il paradigma.
Nel Cinquecento viene introdotto da Machiavelli il termine di “Stato”, sconosciuto agli antichi: “Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati”.
Nel testo “Il Principe” è posta la questione: “ S’elli (il principe) è meglio essere amato che temuto… è molto più sicuro essere temuto… delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori… li uomini hanno meno respetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia temere…li uomini sono tristi…”.
Il terrore è mezzo politico, forza di coesione che tiene assieme gli individui perché esercita una forte pressione psicologica e fisica in modo che il corpo politico sia tenuto unito.
Machiavelli propone la linea della ragione di stato. La salvezza del potere, della cosa pubblica è la legge suprema: ciò che importa è l’acquisto e il mantenimento dello Stato. Il principe può essere anche il re, colui che esercita il principato e “princeps” è colui che ha il primato, che emerge sugli altri, implica elemento che sta al di sopra del resto. C’è un cambiamento sostanziale rispetto al passato con la nascita del principato o del monarca assoluto.
La sostanza del testo è quella di illustrare il metodo, la tecnica affinché il principe o acquisti uno Stato e se ce l’ha, preservarlo e ingrandirlo. Come regolarsi con gli amici, con i nemici e con le milizie. Il principe può seguire qualsiasi metodo utile per la conquista dello Stato, cioè ha il diritto di essere spergiuro e sleale perché gli uomini sono volti al male e non osservano la parola data.
Nel pensiero dell’autore c’è un’antropologia pessimistica, un realismo politico che vede l’uomo pericoloso per sé e per gli altri. C’è osservazione empirica degli uomini: gli uomini sono “tristi” e si lasciano abbindolare per cui il principe deve conoscere l’arte di ingannare, usare l’astuzia nel dissimulare, affermare una cosa e fare un’altra. Si tratta di una politica separata dall’etica. Il paradigma della forza nello Stato non ha una regola perché è forza senza legge. Il principe è la legge. La sua morale è diversa da quella comune degli uomini.
Per Aristotele l’etica politica è identica all’etica del singolo uomo.
Machiavelli ha una soluzione dualistica, cioè l’etica personale è separata dall’etica politica per mantenere lo Stato. La sua posizione non mette in questione i princìpi dell’etica, cioè non c’è il cambiamento delle leggi fondamentali dell’etica. La legge morale continua a valere nel privato e sociale tra le persone ma il principe ha il compito di mantenere lo Stato. Per suo arbitrio insindacale può andare contro la legge morale per necessità politica.
Il filosofo si lega al criterio dell’apparire più che l’essere: il principe deve avere la virtù di simulare e dissimulare. C’è opinione di antropologia negativa: il popolo non ha alcuna struttura interna ma è un aggregato di creduloni inclinati al male, cioè sono capaci di vedere soltanto quello che appare.
Non è pensabile proporre un governo democratico se il principe nutre disprezzo nei confronti del volgo.
In una’antropologia pessimistica è impossibile pervenire a una forma di democrazia per il volgo che si lascia ingannare, cioè in apparenza è un minore. I cittadini, i componenti del principato sono massa amorfa e “spregevole”.
“Il Principe” è testo di pedagogia politica sul principato.
Dell’epoca di Machiavelli è il francese Jean Bodin che, nella sua opera del 1576 “I sei libri della repubblica”, sostiene la sovranità (dal latino maiestatis) assoluta dello Stato di diritto. Il filosofo sostiene che il sovrano non è padrone dei beni dei suoi sudditi e che non può stabilire imposte senza il consenso degli Stati Generali (organo di rappresentanza delle tre classi sociali del clero, della nobiltà e del terzo stato). La sovranità anche se assoluta deve sempre rispettare i diritti di natura e le leggi divine.
Bodin teorizza lo Stato assoluto che si afferma in Francia con Luigi XIII e con Luigi XIV che esalta il trionfo dell’assolutismo con la frase: “L’état, c’est moi!”. L’autore dice: “Occorre riformulare il concetto di sovranità perché nessuno lo ha formulato esattamente”. Lo scrittore è consapevole di introdurre una frattura, una novità.
La sovranità è potere assoluto e perpetuo, cioè per l’intera vita di chi ha il potere. Si afferma un potere sciolto da ogni controllo e dal rispetto delle leggi, cioè senza limiti. La sovranità non è revocabile. Il filosofo allontana la revoca, significando che il monarca è sovrano perché il popolo non solo gli ha trasferito l’esercizio del potere ma gli ha anche dato interamente il possesso dell’autorità. Il popolo si spossessa totalmente del diritto originario dell’autogoverno e lo cede senza limite di tempo, trasferisce in blocco l’autorità del potere .
Bodin riconosce nella sua opera che la legge suprema viene da Dio come diritto naturale. Il monarca francese è diviso dal popolo ed è re “per grazia di Dio”. Il principe sovrano rende conto solo a Dio, cioè riconosce la legge divina.
Il termine di “repubblica” usato dallo scrittore è inteso nel senso di “cosa pubblica” che non appartiene al dominio privato ma vale per tutti, cioè è società politica.
Il monarca è immagine di Dio e non può avere uno simile a lui, per cui la sua sovranità è indivisibile come una sfera chiusa e unitaria che non ammette la partizione, cioè non può essere partecipata. Il sovrano trascende il popolo e governa dall’alto il corpo politico. Egli è irresponsabile, cioè la sovranità non risponde di se stessa.
Nel Seicento il concetto di sovranità è ripreso nelle opere dell’inglese Thomas Hobbes. La sua idea è opposta a quella di Aristotele. L’uomo, per il pensatore inglese, è per natura incapace e non incline a vivere in società, cioè è a-sociale e vive in uno “stato di natura” dove non ci sono leggi, ognuno ha paura di essere ucciso violentemente dal suo simile e di essere privato dei beni. Si escogita il “contratto sociale” con cui ognuno si spossessa di tutto ciò che ha per attribuirlo al sovrano in cambio della grazia della sicurezza. Si immagina la nascita dello Statoper contratto” con cui il singolo uomo entra in rapporto.
Si tratta di una finzione giuridica: la nascita di un popolo e di uno Stato, cioè di una società politica per contratto che non è naturale ma artificiale. Con il contrattualismo di Hobbes nasce la dialettica politica. I cittadini si sottomettono al potere comune, cioè al terrore che dirige le loro azioni in vista del bene comune. Tutti concedono tutto il loro potere e la loro forza a un solo uomo che riduce tutte le volontà alla volontà e giudizio del sovrano. C’è lo spossessamento da parte di tutti gli uomini del loro diritto originario di autogoverno. Lo Stato è il sovrano.
Sulla copertina del “Leviatano”, pubblicato nel 1651 da Hobbes, è raffigurato un gigante, costituito da tanti singoli individui, che regge in una mano la spada, simbolo del potere temporale, e nell’altra tiene il pastorale, simbolo del potere religioso. Lo Stato si identifica nel sovrano, il dio mortale che tiene assieme gli uomini con il terrore. La forza che conserva la società non è più la giustizia e l’amicizia ma il timore. Il sovrano, essenza dello Stato, è la persona collettiva. La politica è fondata sulla pressione del terrore.
Con Hobbes è il potere che pone la legge e lo pone come vuole la legge (auctoritas, non veritas facit legem…).
Il primo filosofo che nel Seicento attacca il pensiero di Aristotele e Platone è l’inglese Francesco Bacone che conosce anche i testi di Machiavelli. Tutte le antiche conoscenze, ritenute errate, sono considerate idoli, cioè semplici illusioni, superstizioni, favole di filosofi, concezioni basate sul destino, la fortuna, sui discorsi di piazza. Egli crea un nuovo metodo induttivo diverso da quello usato da Aristotele, cioè non si basa sull’osservazione dei fenomeni ma su esperimenti, senza l’uso della matematica. La sequenza degli esperimenti non arriva all’essenza delle cose.
Il filosofo e matematico francese Cartesio, ritenuto il fondatore della filosofia moderna e padre della matematica moderna, elabora un nuovo metodo di fare scienza. Il pensatore cerca la verità delle cose e ritiene che il criterio basilare sia la loro evidenza, cioè la loro chiarezza e distinzione. In attesa di avere delle regole certe di comportamento, il pensatore utilizza anche una morale “provvisoria”, ottenuta dubitando su tutto. La certezza del suo sé è posta a base di tutta la sua conoscenza. Ogni uomo ha un proprio metodo per affrontare tutte le verità, cioè un criterio di orientamento per ottenere i suoi vantaggi nel mondo. Per il filosofo il “dubbio” è l’origine della saggezza. Ciò che è evidente è che lui è una “res cogitans”, cioè una sostanza pensante che si oppone alla “res extensa, il corpo, la materia.
Aristotele usava il metodo analitico e genetico, mentre Cartesio usa il metodo della deduzione e rifiuta di dare ai sensi ogni dignità conoscitiva. Da cose immediatamente evidenti si deducono tutte le altre cose attraverso innumerevoli passaggi intermedi, basando tutto su un modello matematico. L’esclusione del pensiero dalla materia allontana il rapporto anima-corpo che è sempre stato alla base della conoscenza, cioè Cartesio separa la parte spirituale dell’uomo da ciò che è materiale.
L’essere umano si chiude nell’autoriferimento. Si afferma il razionalismo e l’astrattismo, cioè la ragione e la scienza si sovrappongono alla realtà. L’artificializzazione della società porta alla derealizzazione dell’uomo che perde i suoi veri connotati, diventa un’idea di se stesso. L’uomo non è più realtà ma una semplice idea della ragione. La mediazione del linguaggio fa sì che l’uomo o la donna non sono più quell’uomo o quella donna lì ma solo un nominato, frutto dell’idea umana. Tutto diventa progetto astratto e l’esperienza politica è fagocitata dalla politica iper-astratta.
In Inghilterra John Locke rielabora le concezioni cartesiane ed afferma che l’oggetto della conoscenza umana sono le idee e non la realtà in sé. Nei “Trattati sul governo” del 1690 il filosofo sostiene che i cittadini trasferiscono al sovrano soltanto una parte dei propri diritti naturali in base a criteri di praticità e di convenienza. Si tratta di un contratto che può essere rimosso nel momento in cui lo Stato non garantisce la libertà dell’individuo. L’esercizio della resistenza e della ribellione è doverosa quando lo Stato oltrepassa certi limiti. La concezione di Locke è diversa dal patto di Hobbes che si instaura tra gli individui. Il potere assoluto è delegato ad un unico organismo o istituzione.
Si affermano i principi del liberalismo che difendono la libertà d’azione dell’individuo nella società. L’Europa conosce la “Dichiarazione dei diritti” inglese del 1689.
Il liberalismo sostiene che sono sufficienti le regole procedurali e formali a tenere insieme la società.
Nel rifiuto di qualsiasi visione teleologica della natura umana, in cui l’uomo possiede un’essenza che definisce il suo fine, si crea la rottura del liberalismo e della modernità con la tradizione classica, per la quale la scienza politica veicola il concetto che l’uomo è dotato di un’essenza e di un fine, cioè di un qualcosa che trascende tutti i ruoli sociali.
Anche nel continente si diffondono le idee del liberalismo inglese (Locke) e scozzese (Hume) con Immanuel Kant e Benjamin Constant.
Il liberalismo deriva gran parte della sua forza dalla dottrina giusnaturalistica del diritto naturale legata alla dottrina dei diritti innati e imprescrittibili della persona per cui c’è quasi identità tra liberalismo e giusnaturalismo. La scuola del giusnaturalismo, dottrina filosofico-politica nata nel Seicento, viene fondata dall’olandese Ugo Grozio per la sua affermazione che esiste un ordine naturale, creato dalla razionalità umana, valido per sé. Per il filosofo tutti gli uomini sono creati uguali e sono dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili.
Gli elementi del liberalismo sono l’individualismo, per il primato morale della persona, l’egualitarismo, lo stesso stato sociale a tutti, l’universalismo, unità morale del genere umano e il migliorismo, le istituzioni sociali sono migliorabili. I quattro caratteri non indicano la libertà e non toccano i temi dell’autorità, del bene comune e del diritto naturale.
Le convergenze del liberalismo con la filosofia politica classica di Aristotele e di Tommaso d’Aquino sono la preminenza della società sullo Stato e la superiorità del governo delle leggi sul governo degli uomini in quanto la legge non ha passioni.
Il diritto liberalistico è concepito come un valore di tutela della libertà dell’individuo nei confronti dello Stato e nei confronti di terzi, cioè come strumento di regolazione sociale e come confine innalzato per limitare lo Stato.
Nel pensiero del liberalismo è carente il tema dell’autorità per la scarsa distinzione tra autorità e potere, per la difficoltà a rinvenire una legittimazione reale all’autorità politica e per il fastidio che costituisce l’esistenza dell’autorità. Questa riluttanza è dovuta al fatto che per il liberalismo l’autorità non è mai “auctoritas, cioè non è qualcosa che ha il compito di far crescere e promuovere la socialità.
La nozione di “auctoritas” è considerata concetto centrale della filosofia morale e politica classica. Per Tommaso d’Aquino governare è “guidare l’uomo al debito fine”, cioè l’autorità politica ha una concezione teleologica per il conseguimento del bene comune. L’autorità trae la giustificazione dal “fine” e non dal contratto.
L’elemento morale del liberalismo è la convinzione che è l’individuo che conta, la difesa della sua incolumità, lo sviluppo delle sue possibilità di vita, cioè la dottrina sociale liberale è basata sui principi dell’etica e dell’economia utilitaristica.
Lo svizzero Jean-Jacques Rousseau, con l’opera il “Contratto sociale”, scritto nel 1762, manifesta il suo pensiero anti democratico. Il filosofo riprende il concetto di sovranità come “volontà generale”. Attraverso un patto o contratto il corpo politico dà il potere assoluto al sovrano. Il contratto ha una forma simile a quella di Hobbes. Ciascun cittadino, in perfetta indipendenza dagli altri e dalla città, attribuisce la sua volontà e i suoi beni al sovrano, cioè alla “volontà generale”. L’idea del contratto sociale non è reale ma è un canone astratto di ragionamento. Si forma una struttura di pensiero che attua il mito di volontà generale.
Rousseau si confronta con le teorie sociali del tempo ed ha l’idea di uno “stato di natura” originario dell’umanità, cioè un’antropologia ottimista. Gli uomini hanno una socievolezza originaria deformata dalla creazione delle istituzioni sociali che impoveriscono l’umanità e creano una diseguaglianza tra gli individui. La nascita della proprietà privata diffonde l’oppressione.
Il filosofo è convinto che la democrazia diretta può essere realizzata soltanto in piccole comunità politiche (Svizzera).
La volontà generale è la volontà del sovrano e questo cancella ogni società intermedia, cioè si instaura un rapporto diretto tra cittadino e Stato. I rappresentanti della volontà generale sono semplici commissari con vincolo di mandato. L’idea di sovranità o volontà generale è la stessa di Bodin in cui il soggetto della sovranità è il monarca che detiene il possesso e l’esercizio del potere assoluto che non può essere rappresentato.
Rousseau cambia il soggetto della sovranità senza cambiare la struttura, cioè il sovrano è il popolo. Si trasferisce la sovranità dal monarca al popolo, cioè ad un essere collettivo. La forma di governo migliore per il filosofo svizzero è quella democratica e nello stesso tempo ritiene che una forma così perfetta non conviene agli uomini ma solo per gli “dei”. Il pensatore illuminista non è democratico perché non pensa a una democrazia rappresentativa per i cittadini. La sua volontà generale non può essere rappresentativa perché è solo un’autorità lontana dal popolo. Si tratta di un’autorità suprema, cioè un potere supremo che non può essere trasferito.
Il patto sociale o contratto sociale dà al corpo politico il potere assoluto che è inalienabile, cioè non può essere dato a nessuno.
Il sovrano, che è il popolo nell’unità di volontà generale, rappresenta se stesso. La sua autorità è un potere forte ed è sempre retto, cioè non ha bisogno di dare garanzie nel senso che non ha bisogno di essere controllato dal basso. Il sovrano è sempre il dover essere.
La volontà generale non è la volontà della maggioranza, cioè non può essere accertata tramite la conta di maggioranza o minoranza. Si tratta di democrazia totalitaria attraverso la volontà generale di un’assemblea di cittadini che non dà garanzie e che non può essere controllata dal basso perché è sempre retta, cioè è sempre giusta.
L’errore di Rousseau è quello di voler costruire il diritto non sull’elemento della ragione ma su una base irrazionale al diritto perché lo fonda su uno “stato di natura” anteriore alla ragione. La ragione è considerata dal pensatore svizzero come potenza straniera, non come parte integrante dell’uomo, ma come qualcosa che si sovrappone all’uomo e lo soffoca. Si riscontra una contraddizione nell’immaginazione di una società che corrompe l’uomo.
Nello Stato non ci sono società parziali e l’individuo non ha alcuna socialità per inclinazione.
Il cittadino è indipendente dagli altri e dipende dalla città, cioè tra cittadino e Stato non c’è alcuna società.
Questa idea, che non vi sia alcuna società parziale tra cittadini e sovrano, genera nel 1794 la Rivoluzione francese che abolisce ogni società particolare nello Stato.
L’assolutismo e lo statalismo distruggono ogni società intermedia; il cittadino rimane indifferente di fronte allo Stato, cioè è costretto ad andare o a fare quello che vuole la volontà generale in quanto non c’è possibilità di dissenso.
Il terrore rivoluzionario è conseguenza dell’astrazione, cioè della sovrapposizione della ragione alla realtà. Coloro che non si piegano alla progettualità astratta della volontà generale sono piegati con la forza. Dietro questa volontà di abuso dell’astrattismo si cela la volontà di potenza degli “illuminati”. La realtà della società viene impoverita perché privata del suo aspetto qualitativo dall’intellettualismo dei rivoluzionari. L’uomo vuole dominare la realtà e non lasciare parlare il cittadino con la sua totalità di essere persona, come unione dell’individuale e dello spirituale.
La Costituzione francese, cioè l’assetto prima della Rivoluzione rimane indietro perché i rivoluzionari perdono i contatti conl'ethosdel popolo, cioè con il suo sentire reale. L’ordinamento artificiale scaturito dalla ragione si sovrappone all’ordinamento naturale, spontaneo. La pretesa della ragione di porre un ordine maggiore e di decretare la realtà si trasforma in patologia.
L’esplosione patologica è espressione drammatica dello spirito rivoluzionario che anima alcune classi sociali che non accettano lo scorrere naturale della storia. I rivoluzionari tentano di accelerare la storia e non mirano a un cambiamento graduale per riformare tutti gli aspetti della società. C’è impazienza e si vuole agire subito forzatamente per eliminare la miseria e l’ingiustizia. Lo spirito rivoluzionario vuole sostituirsi alla religione della tradizione popolare per risolvere con forza i problemi che assillano i cittadini.
Nel Settecento la politica è lo Stato e questo non promuove la vita personale, cioè gli uomini non hanno la possibilità di svilupparsi e di progredire. Lo Stato perde il sottofondo coscienziale del popolo perché le istituzioni si dissociano dala realtà e la persona diventa sempre più un individuo gracile che che vive solo, fuori delle istituzioni sociali e politiche. Ogni uomo è separato dagli altri. La vita individuale sprofonda nell’individualismo e lo Stato si insinua e si sostituisce alle relazioni fra gli individui. La debolezza individuale genera soltanto uno statalismo e lo Stato diventa Stato etico perché cerca di sostituire l’etica spontanea che nasce tra i cittadini. Questo aspetto paradossale dello Stato genera l’individualismo esasperato che sfocia nell’orrore del terrore giacobino.
L’illusione perfettistica dei rivoluzionari pretende di esaurire tutto ciò che è umano e si allontana dalla realtà della società. Si tratta di utopismo legato a una visione meccanicistica della realtà sociale. La ragione esasperata del razionalismo si lega alle componenti istintuali volontaristiche che vogliono plasmare a piacimento la realtà sociale.
Alcuni pensatori, gli “illuministi radicali”, muovono dal desiderio di eliminare la tortura ed hanno un punto in comune con Rousseau che è quello di criticare la concezione del “peccato originale”, perché considerano l’individuo naturalmente buono e benefico nei confronti degli altri. Per loro il peccato originale è pura leggenda e pura frode. La caduta di questo punto è drastico ridimensionamento che comporta pesanti conseguenze.
Immanuel Kant si dissocia dai filosofi illuministi e ritiene che il “peccato originalesia elaborato filosoficamente.
Il filosofo tedesco nel 1784 così si esprime in un pubblico dibattito: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro… Ma quale limitazione è d’ostacolo all’illuminismo. E quale non lo è, anzi lo favorisce? Io rispondo: il pubblico uso della propria ragione dev’essere libero in ogni tempo, ed esso solo può attuare il rischiaramento tra gli uomini; invece l’uso privato della ragione può assai di frequente subire strette limitazioni senza che il progresso del rischiaramento ne venga particolarmente ostacolato…Il cittadino non può rifiutarsi di pagare i tributi che gli sono imposti … Tuttavia costui non agisce contro il dovere di cittadino se, come studioso, manifesta apertamente il suo pensiero sulla sconvenienza o anche sull’ingiustizia di queste imposizioni. Così un ecclesiastico è tenuto a insegnare il catechismo agli allievi e alla sua comunità religiosa secondo il credo della Chiesa…si lasci libero soprattutto l’uomo di Chiesa, di fare sui difetti dell’istituzione vigente le sue osservazioni pubblicamente…Ora ciò che neppure un popolo può decidere circa se stesso, lo può ancora meno un monarca circa il popolo; …egli non può per il resto che lasciare i suoi sudditi liberi di fare quel che credono necessario per la salvezza della loro anima…. Un maggior grado di libertà civile sembra favorevole alla libertà dello spirito del popolo”.
I filosofi del “secolo dei lumi” esaltano la ragione e Rousseau ritiene che la riflessione della ragione generi l’egoismo; il calcolo del piacere e del volere porta all’utilitarismo. L’individuo invece di aprirsi alla vita, si raggomitola su se stesso, inizia ad avere paura di tutto e non ha più slancio per la vita.
Gli intellettuali avvertono che la società ha bisogno di progresso e, invece di presentare un complesso di norme equilibrate, soffiano sul fuoco della rivoluzione. La società civile vuole ma non è in grado di dare da sé una forma al progresso. I pensatori illuminati propongono e impongono una forma. Si tratta di partire da una idea e plasmare la società per organizzarla. Si apre la strada al totalitarismo.
Di fronte ai problemi dell’aristocrazia invecchiata, ai privilegi del clero, alla monarchia cieca e timorosa delle cose nuove, i filosofi dei “lumi” pretendono di evocare le forze irrazionali per civilizzarle. Si scatena il caos dei giacobini che pretendono di usare le parole di Jean Jacques Rousseau.
Quali sono i fatti e quali i significati che scaturiscono dalla Rivoluzione francese?
Benjamin Costant, esponente del liberalismo francese, nelle sue opere ci introduce alla distinzione tra il dispotismo dell’Ancien Régime e la forma nuova di dispotismo, cioè l’usurpazione di Napoleone.
Prima della Rivoluzione il dispotismo si manifesta nella volontà del padrone, del sovrano che è unica legge e non esistono corpi intermedi. I sudditi sono usufruttuari del despota che detiene un potere arbitrariamente arbitrario perché può annullare anche le sentenze giudiziarie. Il potere tradizionale poggia su princìpi di legittimazione come la tradizione.
Il potere post-rivoluzionario è usurpato e non ha legittimazione.
Con la frattura rivoluzionaria, chiunque può ambire ad essere uomo forte, nuovo sovrano che non poggia il suo potere sulla legittimazione tradizionale.
Al silenzio del dispotismo si sostituisce un potere che penetra nello spirito e nell’anima con i mezzi economici. Il mondo nuovo è il mondo del progresso, cioè il mondo della ragione che si lega con l’economia e l’industria tecnica. Si crea una società ad alta differenziazione.
La libertà del nuovo uomo moderno non è più la libertà degli antichi che si manifesta come partecipazione di uomini che si sentono parte della città. La libertà del cittadino dopo la rivoluzione è la libertà del singolo individuo, cioè è riconosciuta la sfera privata e ognuno ha una sua dignità, un suo diritto.
Con Rousseau si esalta la patria e la società ha il primato sul singolo.
Dopo la Rivoluzione, la libertà dei moderni diventa sfera privata, cioè sfera della libertà individuale.
Benjamin Constant nelle sue opere afferma: “Allorquando i cittadini, divisi, nei loro interessi, giungono a nuocersi reciprocamente, un’autorità provvede a separarli, pronunciandosi sulle pretese in conflitto e tutelando gli uni dagli altri… Ugualmente, qualora i poteri pubblici (potere reale, potere esecutivo, potere legislativo, potere giudiziario) si dividono e siano prossimi a danneggiarsi, occorre un potere neutro che faccia nei loro confronti ciò che il potere giudiziario fa nei confronti dei singoli individui”..
L’autore intende con il termine “autorità” il potere giudiziario e con il “potere neutro” indica il monarca costituzionale che ha il potere reale e diventa il potere giudiziario degli altri poteri, cioè il garante della divisione dei poteri. Si tratta di costituire una garanzia esterna per limitare l’espandersi dei poteri.
Il liberalismo tradizionale di Locke e di Benjamin Constant mira ad addomesticare lo Stato; si vuole scendere a patti con le istituzioni statuali che non possono essere messe in discussione.
Il potere neutro, che garantisce l’ordine, non trova successo nelle storia perché il potere non è mai neutro e non ha garanzia che possa fare da garante: o è inutile o non è neutro e alla fine è potere vero.
Benjamin Constant esalta la modernità degli uomini dell’Ottocento legati alle loro origini cristiane ma non ha chiaro il gioco degli interessi tra la politica e la società moderna che aspira anche a nazionalizzare e a socializzare.
Il liberalismo propugna un’idea di Stato di diritto, cioè Stato che funga da garante nei confronti della libera attività della persona individuale. Si tratta di uno Stato dacornice” e non più l’assolutismo e il dispotismo.
Nel Risorgimento italiano si oppongono e si fronteggiano i liberali e i democratici.
Chi sono i democratici?
Il liberalismo è più antico della democrazia moderna che inizia il suo sviluppo nel Settecento, quando il liberalismo è già affermato.
Il liberale Alexis de Tocqueville afferma che facilmente le democrazie cadono sotto gli influssi dei demagoghi. E quindi cadono le garanzie per l’individuo.
La democrazia nell’Ottocento è vista come insieme di meccanismi e procedure che mirano ad accertare il consenso.
I liberali sono sempre per la controrivoluzione.
La prospettiva del conte di Cavour, libera Chiesa in libero Stato”, rientra nella concezione del liberalismo originario i cui rappresentanti sono fautori della monarchia costituzionale. Per lo statista liberale, la Chiesa deve rinunziare ai suoi possedimenti e dedicarsi soltanto alle questioni delle anime.
I democratici si rifanno alla Rivoluzione francese e i rappresentanti più conosciuti sono Mazzini e Garibaldi che conquistano le simpatie dei borghesi. L’idea di Mazzini è unitarista, cioè creare una democrazia a base etica il cui principio costitutivo è l’affratellamento tra i cittadini. Il patriota vuole creare una coscienza forte per il popolo, “fare gli Italiani” con una coscienza comune che possa permettere di fare sacrifici, realizzare dei doveri, cioè dedizione alla causa comune, senso di dignità e di vita etica. Si tratta di una “religione civile” in cui il cristianesimo, non legato alla trascendenza, è fondamento della vita politica della società civile. Il cristianesimo è unito alla politica e questo destituisce il cristianesimo cattolico.
La situazione italiana dei primi anni dell’Ottocento è complessa. C’è sotto un problema economico. La crisi del mondo con raccolti poveri, l’invasione dei Francesi arroganti, lotte tra i ceti sociali. Il ceto medio borghese disprezza il ceto contadino.
Nelle masse popolari si presenta collettivamente una razionalità politica e non solo pulsioni ed emozioni incontrollabili.
Si diffondono, nei primi decenni dell’ Ottocento le proposte del socialismo di Saint Simon e di Proudhon.
Saint Simon, influenzato dagli “Enciclopedisti”, nella sua opera “Nuovo Cristianesimo”, intravede la fisionomia di una nascente età organica in cui i detentori del potere spirituale saranno gli scienziati, per capacità e previsione, e i detentori del potere temporale saranno gli industriali. Il governo degli scienziati e degli industriali assicurerà la pace tra le nazioni e il benessere per i singoli.
In Italia, i primissimi accoliti sono legati al mondo contadino della Val Padana. I fautori della nuova dottrina si presentano come predicatori e usano il linguaggio religioso per realizzare il loro statalismo nella forma di collettivismo.
Dopo il 1830, il termine “socialismosi diffonde in Francia.
I sansimoniani rimproverano al cristianesimo di aver promesso la felicità, di non aver saputo procacciare vantaggi temporali, e prospettano una religione come proposta di “nuova società”, cioè una “religione sociale”. Si riscontrano elementi di familiarità tra cattolicesimo e i teorici del socialismo: dignità di ogni uomo anche nello stato più umile, qualsiasi lavoro ha la sua dignità, lotta contro la miseria, affermazione di valore positivo di scelta inerente a sobrietà di vita, valore etico del lavoro, religione di salvezza temporale. I sansimoniani, con la loro ragione auto referenziata, hanno idee funzionaliste, cioè hanno una mentalità che è l’espressione dello spirito rivoluzionario imposto dall’alto, uno spirito tecnocratico che intende plasmare la società, modellarla a piacimento. Si tratta di uno stile demagogico in cui lo Stato diventa assistenziale e non coglie le vere istanze di progresso del popolo.
Pierre-Joseph Proudhon, teorico francese del socialismo e lettore di Rousseau, nel 1840 con la sua opera “Che cos’è la proprietà?” sostiene che tutti i mali sociali derivano dalla proprietà e che il dispotismo e i privilegi scompariranno con l’abolizione della proprietà. Proudhon è radicale e lotta contro l’universale burocratizzazione del mondo che ha a che fare con l’idea di razionalità. Il suo desiderio è quello di realizzare una democrazia federalista, cioè un patto (dal latino “foedus”), un contratto tra le persone responsabili che si danno delle regole, come una nuova religione civile dell’umanità.
Il pensatore francese dice: “Federazione è pluralità, autogoverno, è diritto, è diritto determinato dal libero contratto; la legge, il diritto, la giustizia sono statuto e fondamento del movimento federalista”. Si tratta di un federalismo radicale che vuole limitare i poteri dello Stato.
L’espediente comune ai fautori del socialismo è quello di spegnere la libertà personale creando un nuovo dispotismo mascherato, perché costringe gli uomini ad adattarsi alla nuove dottrine anche con la forza. I promotori abusano, eccedono nella loro razionalità che è pura astrazione, cioè sovrapposizione alla realtà con promesse irrealizzabili, come l’idea della limitazione transitoria della proprietà privata per resistere ai ceti interessati al suo mantenimento. Non si tratta più di prescindere dalla religione, come affermavano gli illuministi, ma di sostituirsi alla religione cristiana. Si prende di petto la religione cattolica e si propone di ripensare un nuovo cristianesimo come vincolo sociale a vantaggio di tutti i seguaci. Si tratta non più di una visione di trascendenza ma di una immanenza orizzontale. La società viene divinizzata, quello che conta è la società e l’individuo non conta più nulla. Si tratta di trasformare la società in una forma di collettivismo.
In Italia, i seguaci di Proudhon presentano il federalismo come rivolta libertaria contro l’autoritarismo. Il loro ispiratore francese sostiene la “poliarchia libertaria”, il “pluralismo” di nome in cui il cammino è l’autoemancipazione della società. Si tratta di democraticismo.
La democrazia dei primi anni dell’Ottocento è intesa come tradizione sovversiva contro la Restaurazione, cioè contro i sovrani reazionari che cercano di contrastare le idee della Rivoluzione francese, diffuse dagli eserciti di Napoleone.
L’idea, la concezione meccanica, la fede, la nuova religione del progresso, avvertita dal ceto medio europeo, porta i popoli al caos, all’ingresso in un’epoca tragica, quella del Novecento che vede due guerre mondiali e il propagarsi di idee assassine che portano al genocidio e allo sterminio.
Qual è l’origine di questa catastrofe?
La realtà, l’essere è diventato oggetto di trasformazione. L’uomo viene oggettivizzato, diventa individuo in solitudine per l’eclissi della trascendenza con l’umanizzazione della religione e per la riduzione della verità all’uomo.
Dal filosofo inglese del Seicento Bacone, propagatore di un’età della tecnica, all’ideologo francese Saint-Simon dell’Ottocento, predicatore di un processo tecnocratico concepito e sperimentato, lo Stato mira soltanto all’incremento economico, visto come bene più profondo. La felicità è vista in una dimensione orizzontale con una concezione strapolitica della vita.
Qual è il problema?
L’ideale di felicità assoluta, standardizzata con la creazione di domini dispotici. Si deve realizzare lo Stato ideale con la tecnica. Le cose non servono più per migliorare la vita dell’uomo, cioè i governanti non mirano alla creazione del bene comune. L’uso delle cose diventa un mezzo di potere sulla natura e sugli uomini. Lo Stato è dispotico ed accarezza l’ideale di felicità, strumentalizzando e garantendo con la tecnica di soddisfare gli uomini. I bisogni vengono moltiplicati per ragioni di dominio politico. La concezione tecnocratica strumentale porta al fallimento perché si sostituisce alla cultura della società, cioè alle sue radici e tradizioni culturali.
Qual è l’immagine dei primi decenni del Novecento? Il terrore dei demagoghi che esasperano i nazionalismi, li alimentano artificiosamente a vantaggio dei ceti dominanti.
Il disincanto del mondo”, previsto da Max Weber, con il primato attribuito alla razionalità rispetto agli scopi e ai valori della società, si ritorce contro gli uomini e i risultati sono tragici. Si auspica una conoscenza scientifica oggettiva, cioè neutra, non inficiata da valori. Le scienze sociali vengono rese avalutative, sganciate dalle prospettive etiche della società perché l’etica è considerata come universo di atti di fede. La scienza viene tecnicizzata senza il coinvolgimento morale o valoriale.
Weber nelle sue opere, pubblicate all’inizio del Novecento, rigetta il giusnaturalismo e l’etica della società. Quale Stato immagina questo sociologo che si affaccia al nuovo secolo dopo l’esperienza dell’epoca precedente? Lo Stato è monopolio della violenza ed ha bisogno della legittimazione di tipo religioso. Lo Stato si evolve e si laicizza, diventando a-religioso per garantire le diverse confessioni. La conoscenza sociale mira alla neutralità oggettiva e lo Stato arriva a idea di laicità che deve fare l’istituzione neutrale rispetto alle religioni, cioè non coinvolge i valori. Si tratta di Stato laico privo di una propria opzione. Ci sono agenzie assorbite dallo Stato come le università che diventano apparati dello Stato. Tutto ciò che è valoriale viene eliminato per lacità. Weber vuole annullare ogni prospettiva filosofica, cioè tutti i valori della società.
Nei primi anni del Novecento si crea una situazione in cui mancano le norme perché è il sovrano che decide. Il “furher” è un decisore, cioè è lui che decide. L’avalutatività è strettamente legata allo Stato moderno.
Colui che decide sceglie per la società e la sua scelta si istituzionalizza, diventa sistema sociale, politico, economico e poi diventagabbia di ferro”. Weber ha una posizione di conservatore ma anche di progressista e di interventista.
Lo scrittore è il fondatore della sociologia tedesca e incrocia la politica con le sue opzioni militariste, con le sue teorie sociali sul potere e con le sue riflessioni sulla modernità. Dopo la Prima Guerrra Mondiale, dopo essere stato nazionalista, fautore della potenza dello Stato tedesco, espone le sue idee democratiche per l’unità della Germania.
Weber capisce che la cittadinanza democratica, la democrazia è elemento dello Stato. I cittadini che partecipano sono parti dell’entità dello Stato. Il suo ideale è quello di creare una comunità legale, cioè l’adesione alla legge. A lui interessa il potere legale, cioè un ordine di potere legale razionale che deve essere rispettato da tutti i cittadini. Le regole devono essere astratte, impersonali e far che tutti obbediscano alle regole, cioè obbediscano all’ordine legale razionale. Il potere legale è un apparato burocratico che è rinvenuto in tutte le realtà empiriche: chiese, imprese, partiti, associazioni sindacali. Questo potere esige dei criteri, cioè è una grande piramide che in alto prevede la gerarchia e poi di seguito le regole scritte, i funzionari retribuiti, la separazione tra vita d’ufficio e vita privata, e in ultimo le risorse che non appartengono ai privati ma all’apparato stesso.
Il filosofo tedesco appartiene all’area della Scuola storica di Berlino che riduce l’economia alla storia, cioè gli economisti devono misurare, prendere atti, raccogliere dati che possono essere utili per la gestione politica dell’economia. La Scuola storica esclude che vi siano regole ed annovera gli economisti nazionali e liberali che si riallacciano alle idee di un socialismo di Stato e alle dottrine della monarchia sociale.
Il sociologo è relativista perché, nella sua opera del 1903, “L’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale”, sostiene che vi sono uomini che vivono in universi in cui c’è una molteplicità di valori che non sono collegati tra loro. Per lui i valori sono arbitrari e gli scienziati sociali e politici devono definire soltanto gli scopi e dire quali sono i mezzi per raggiungerli. Per lui i valori sono soggettivismi, cioè sono atti di fede.
“I valori ci sonodice Weber – ne prendiamo atto ma non comprendiamo di introdurre i giudizi di valore. Non c’è esperienza morale ma solo empirica, solo naturale, per cui l’etica è solo atto di fede. Il docente per Weber deve distanziare i fatti dai valori di esperienza. Ci sono “costellazioni di valutazioni” più o meno giuste e non una sola. I valori devono essere distinti dall’ambito scientifico. Questo significa che non c’è una sola etica.
Il filosofo presenta di fatto, nella sua opera, la resistenza del docente di fronte ai valori: separazione tra valori e fatti come esigenza di autolimitazione e autosilenzio. Lo scienziato deve censurare la propria valutazione valoriale perché inficia la scientificità. Poiché l’università non può ammettere tutte le posizioni, (dovrebbe annettere anche quelle dei nemici), quindi l’università deve essere neutra. Unica strada coerente è che sulle questioni di valore si taccia e si tenga distinzione.
Il processo di separazione della politica dalla morale, iniziato con Machiavelli, proseguito con Hobbes, Bodin e Bacone, rafforzato con il razionalismo, scaturito dal pensiero di Cartesio, con le idee di Locke, con l’invenzione dello “stato di natura” e della “volontà generale” di Jean Jacques Rousseau, con la diffusione dell’illuminismo radicale, con la separazione di scienza e coscienza ( distinzione dei giudizi scientifici e giudizi di valore) di Max Weber, trionfa con lo Stato di diritto che costruisce una serie di norme che sono obbligazioni, diritto, soggetto giuridico.
Lo Stato tedesco di Hitler è uno Stato di diritto e impone il suo diritto di guerra, il diritto di internare nei lager, il diritto dello sterminio e del genocidio.
Lo stato sovietico di Stalin è uno Stato di diritto e impone il suo diritto di internare nei gulag e il suo diritto di eliminare i nemici politici.
Nel processo di Norimberga viene evocata la coscienza comune dell’umanità per i criminali della Seconda Guerra Mondiale. Gli accusati dicono: “Ho obbedito agli ordini”. Il tribunale tiene conto che al di sopra dell’ottica interna dello Stato nazista, cioè del diritto positivo nazista, c’è il diritto più alto che è la legge morale, cioè la coscienza che vieta di obbedire agli ordini ingiusti, immorali. Si assiste al trionfo del diritto naturale sul diritto positivo che pretende di emettere ordini anche contro la legge naturale, insita nella coscienza di ogni uomo.
La coscienza umana riconosce come male soprattutto quello di uccidere l’innocente. Mentre vige questa concezione, si continua nel mondo a praticare il genocidio. In tutte le culture si ritiene colpa grave uccidere l’innocente, cioè in modo non motivato. L’assassinio priva l’uomo dell’impulso naturale di continuare nell’esistenza. Il concetto di genocidio è male grave ed è deduzione della ragione concettuale.
La legge naturale è iscritta nell’essenza umana, è legge morale, cioè è norma di funzionamento fondato nell’essere che è uomo. La legge naturale appare come ordine ideale che si riferisce alle azioni umane e stabilisce la linea di demarcazione tra ciò che è consono alla natura umana e ciò che è in contrasto. La legge naturale è principio che disciplina e rende più concreta la divisione: fare il bene e non fare il male. Il principio della ragione pratica di fare il bene ed evitare il male è una delle inclinazioni fondamentali dell’uomo. Le inclinazioni sono preesistenti fin dall’antichità nella cultura e questa garanzia è di tipo storico-empirico.
La legge positiva deve essere dichiarazione legata in modo contingente alla legge naturale. La legge positiva dice ciò che dobbiamo fare e ciò che non dobbiamo fare. La legge positiva non può andare contro la legge naturale ma muoversi nel solco della legge naturale. La legge dice che non si può danneggiare l’altro. La legge positiva non può mai stabilire qualcosa che è contraria alla legge naturale, altrimenti la legge positiva non è più valida. Si parla di diritti e doveri dell’uomo come facce di un’unica medaglia in quanto il diritto è ciò che è dovuto all’uomo in quanto tale, cioè è il suo dovuto ed è dovuto dagli altri come obbligo. Il diritto degli altri è mio dovere perché sono obbligato a riconoscere il diritto che accende in me il dovere. Il diritto delle persone a non essere assassinate significa dovere degli altri di non assassinare.
Con la nascita del razionalismo si è ritenuto che la legge positiva dovesse essere fatta come copia della legge naturale. La legge positiva deve stare nel solco di quella naturale, non può determinare tante cose come estensione della legge naturale. Molte cose che la legge naturale non legifera sono lasciate alla scelta del legislatore. La stessa legge naturale domanda che tutto ciò che è lasciato debba poi essere regolato dalla legge dei popoli o legge positiva dei singoli Stati, purché questo non obblighi a cose contrarie alla legge naturale. Altrimenti la legge positiva è invalida e non può obbligare.
I diritti umani fondamentali come l’esistenza, la libertà e la perfezione come promozione di cultura, si collegano alla legge naturale. Gli altri diritti come la proprietà sono legati alla legge naturale e al diritto delle genti.
Lo Stato per Hans Kelsen, giurista tedesco nato nel 1881 a Praga, naturalizzato americano e morto nel 1973 a Berkeley, è lo Stato normativo, Stato del diritto come insieme di norme.
Kelsen, sulla scia del pensiero di Kant, ritiene che l’uomo non può andare al di dell’esperienza del conoscere, cioè la realtà esiste solo nella conoscenza umana, nel senso che è relativa al soggetto conoscente.
In alcune sue opere viene descritta la differenza tra assolutismo politico, cioè l’autocrazia, e la democrazia. Lo scrittore ritiene che l’autocrazia sia quella di Luigi XIV che affermava: “L’état c’est moi”, cioè lo Stato si incarna e si identifica nel sovrano del Seicento che si riteneva sottoposto soltanto a Dio.
Nella democrazia, secondo lo scrittore, si dice: “L’état siamo noi”, cioè è la totalità politica che forma la società civile e lo Stato.
Kelsen ritiene che ci sia da un lato un’affinità tra democrazia e relativismo politico e dall’altro ci sia affinità tra autocrazia e assolutismo filosofico e politico. La sua argomentazione si basa sul fatto che i grandi filosofi metafisici sono fermi all’assolutismo politico, cioè parlano di verità ferme nel senso che trattano di autocrazia. I filosofi relativisti sono fortemente fautori di democrazia. L’analogia è fatta con argomenti scarsi e non decisivi. Coloro che credono nei valori e nella verità assoluta non possono essere democratici.
Non è vero quello che scrive il pensatore austriaco perché Platone nella “Repubblica” sostiene che ai filosofi, che conoscono la verità, spetta governare. Aristotele parla di “Motore immobile” ed è favorevole ad un governo misto che prevede anche la democrazia. Tommaso d’Aquino tiene un’idea di governo controllato dal basso.
Dal pensiero del giurista si evince quanto segue: “, dove i cittadini sono relativi di fronte alle scelte di valori e verità assolute, si sottopongono a regole di maggioranza”.
La concezione del diritto di Kelsen è riconosciuta nel continente europeo, cioè in tutte le attuali social democrazie occidentali che sono state influenzate dallo spirito costruttivistico e volontaristico della Rivoluzione francese. Oggi il diritto è produzione pubblica di norme che deve essere depurata da qualsiasi contaminazione spirituale e dalle tradizioni più profonde della società civile.
L’idea del giurista che si possa costruire la teoria del diritto autonoma, pura, che non dipende da qualche cosa esterna, perché diritto è fatto di norme, senza alcun rapporto tra diritto e società, è totale relatività del diritto. Si tratta di un universo chiuso, perché esiste un universo di “universi chiusi” di diritto: italiano, francese, tedesco e ognuno ha un diritto esclusivo.
Oggi c’è distinzione tra realtà e mondo delle leggi.
Per la norma giuridica, se c’e omicidio, ci deve essere l’assassino: questo è l’ambito della legge positiva, cioè del dover essere.
L’acqua che bolle a 100°, in determinate condizioni, è legge fisica, è fatto, è realtà, cioè è essere.
Il diritto di Kelsen è chiuso nella logica della validità, è fatto dal legislatore, quindi non si possono introdurre elementi esterni.
Il diritto si identifica con validità perché è formulato dallo Stato legislatore. La norma positiva diventa sinonimo di validità.
Si tratta di relativismo: la norma è norma perché c’è a monte un’altra norma che sanziona fino ad arrivare alla norma fondamentale.
Kelsen è uno degli autori che ha riconosciuto il nesso necessario tra relativismo filosofico (scetticismo) e democrazia. Per il giurista solo lo scettico o il relativista potrebbe essere un sincero democratico. Per lui non esiste nessuna verità ferma e tutte le decisioni sono possibili a condizione che rispettino la regola della maggioranza; viene rifiutata l’idea che l’autorità politica sia limitata da principi non negoziabili.
In uno scritto il giurista commenta l’episodio del processo di Gesù descritto nel Vangelo di Giovanni. Ponzio Pilato è scettico per il commentatore perché domanda: “Che cos’è la verità?”. La domanda è fatta in modo sprezzante perché Pilato è relativista scettico, non crede alla verità, per cui chiede alla folla: “Gesù o Barabba?”. Il magistrato fa ciò che la maggioranza vuole.
Pilato rappresenta la democrazia relativistica.
Il vero democratico per Kelsen è Pilato che crede scettico. Il procuratore romano procede democraticamente perché domanda alla folla: “Cosa volete che faccia di lui?”.
Cosa si può dedurre dal commento di Kelsen?
Il sistema dei Romani non è democrazia perché Pilato non è eletto dal popolo. Il suo compito è quello di giudicare il popolo, di emettere un giudizio. Pilato si lava le mani e fa emettere la sentenza dal popolo. Si tratta di irresponsabilità e non di democrazia perché si scarica della responsabilità di emettere la sentenza. C’è contraddizione in Kelsen.
La regola della maggioranza libera l’assassino Barabba e condanna l’innocente Gesù.
Il plebiscito della folla è argomento contro la democrazia.
La democrazia lascia che un innocente sia condannato.
Si tratta di catastrofe del diritto e della politica.
Kelsen si dichiara tollerante relativo e nelle sue opere dice: “Dobbiamo essere sicuri della nostra volontà di politica da imporre con sangue è lacrime”. Questo è assolutismo. C’è contraddizione, perché si smentiscono le premesse.
Per il giurista la politica è espressione di interessi e volontà irrazionali e questo è in contrasto con il pensiero di Kant che sviluppa un’autonomia morale.
Kelsen sostiene la democrazia esclusivamente procedurale.
La democrazia procedurale è intesa da tutti come un insieme di regole che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive e con quali procedure. Questa concezione lascia impliciti i presupposti della democrazia, come governo dal basso e suffragio universale, lascia impliciti i valori e i fini ma lascia imprecisati i contenuti.
Le regole non stabiliscono il reale contenuto delle decisioni, cioè che cosa è giusto e che cosa è insoddisfacente. Una democrazia procedurale sarebbe aperta a ogni contenuto e comporta la neutralizzazione pubblica dei valori. C’è identità tra democrazia e metodo democratico.
La democrazia procedurale entra in crisi quando nella società circolano tensioni che lacerano le coscienze delle persone. Una democrazia marcatamente procedurale finisce per attribuire riconoscimento ai poteri forti di fatto.
I cittadini avendo codici di riferimento morale lontani non possono mettersi d’accordo su cose fondamentali per cui c’è richiesta di procedure.
La Piazza pubblica ricorre a procedure, ciò che conta sono le procedure, cioè le regole del gioco ci forniscono le regole. Tutti quelli che partecipano al gioco seguono regole, così il gioco politico deve avere regole di procedura. Il problema nasce quando il contenuto è lasciato fuori delle regole del gioco.
Dall’Illuminismo in poi la ragione europea ritiene di farcela da sola a salvaguardare i valori umanistici. La critica della religione è fatta sulla base di idea che l’ora del cristianesimo sia suonata, perché ostile alla conoscenza e anche perché si vuole evitare che il “trono” dei monarchi della restaurazione si possa unire “all’altare”, cioè al clero dei privilegi. Questo postulato si è dimostrato largamente a-critico.
Per le liberal democrazie, la religione è un fatto privato della coscienza nei confronti di cui vince la libertà. Si rimane neutrali, indifferenti di fronte alle posizioni religiose universalistiche.
Tocqueville nel 1831 osserva che la critica della religione, instaurata dagli illuministi, è quella di ritenere che la religione finisca con la diffusione della libertà e della conoscenza.
I fatti non concordano con la l’opinione della critica illuministica. Lo scrittore francese ha dinanzi la situazione americana dove la religione ha mantenuto presenza forte nella vita pubblica. In Europa continentale ha inciso la Rivoluzione francese che è stata a-religione, nazionalistica, con la concezione della “dea-ragione”.
Alcuni autori notano la differenza tra l’impostazione anglosassone-americana e l’impostazione del continente europeo, in cui c’è stato l’illuminismo liberale, segnato da carattere antireligioso. Oggi si assiste a una ripresa del ruolo pubblico della religione.
Per Kelsen la legge è esclusiva espressione di arbitrio cioè di volontà attualmente dotata di potere nel senso che “auctoritas, non veritas facit legem”, cioè è il potere vigente.
Il potere della legge, nel momento storico, può stabilire il diritto positivo vigente.
Se la maggioranza che fa la legge non è vincolata da qualcosa di superiore che la guida, allora può decidersi qualsiasi cosa.
La regola della maggioranza, il principio maggioritario non assolutizzato, significa decidere senza la garanzia di contenuti. Con il relativismo morale esistono nuclei indisponibili al confronto per alcuni diritti fondamentali dell’uomo. C’è controversia nelle nostre società.
Il grande problema di oggi è: “Chi è l’altro che si affaccia nello spazio pubblico?”, cioè “chi è l’altro?” nel luogo dell’interesse, dove si usano delle procedure senza i valori.
C’è ancora il criterio che le questioni di valori siano portate in ambito privato e soltanto ciò che interessa è pubblicizzato. Gli interessi stanno in piazza ma i valori non possono entrarvi perché hanno “dignità” (secondo Kant) e non possono essere misurati economicamente. Dove ci sono in gioco gli interessi, si può trovare un punto di mediazione e dove sono in discussione i principi e i valori non c’è mediazione. Il valore morale “uccidere o non uccidere” non ha un punto medio. C’è solo la dialettica della “domanda e della offerta” per i beni che possono essere misurati con un prezzo, allora c’è trattativa.
Nella società democratica libera c’è la tendenza di riportare i valori nel privato perché non si trova la regola. Se bisogna decidere sui valori non si decide direttamente ma si trovano procedure neutrali dove non si decide sui contenuti ma si lascia alla procedure trovare soluzioni. La società ha creato benessere e tenore di vita elevato, cioè le istituzioni libere democratiche hanno sviluppato saggezza per cui si è sviluppato benessere e pace.
Ci si interroga come bilanciare, oggi, il pluralismo morale e la legge civile, cioè la legge del nostro ordinamento. Ci sono leggi che permettono di fare qualcosa, altre che vietano, altre che comandano e altre ancora che permettono a certe condizioni di fare o non fare. La società non dispone più di universo ma di un pluriuniverso morale.
Negli ultimi 40 anni, il codice univoco di comportamento morale è diventato plurimo. Quello che una volta era emarginato nella piazza pubblica con giudizio negativo, a prescindere dalla legge civile, oggi non ha più rilevanza morale.
Il compito della legge civile è quello di garantire il pluralismo ai comportamenti dei cittadini oppure quello di fornire anche un indirizzo di vita buona, cioè un indirizzo pedagogico?
Si può passare da un pluralismo morale al pluralismo etico?
La democrazia procedurale della società pluralistica chiede alla legge civile di essere totalmente neutrale, cioè di dare spazio massimo alle leggi che permettono e spazio minimo alle leggi che tendono a vietare, in modo che ogni individuo possa scegliere ciò che gli sembra meglio.
Tra la libertà individuale autonoma e la gestione del bene e del giusto, la legge civile dovrebbe indirizzare a fare ciò che è giusto.
Nell’etica pubblica deve prevalere la libertà o ciò che è giusto?
La legge non solo deve essere uguale per tutti ma deve anche essere giusta.
La giustizia si rivolge all’altro nel rapporto sociale. Siamo in rapporto secondo regole di giustizia.
Se la giustizia riguarda l’altro, chi è l’altro? Se si ritiene che la giustizia debba riguardare il rapporto con l’altro, il problema è la determinazione del soggetto a cui spetta il carattere di essere altro.
A chi spetta lo statuto di essere altro?
Se la legge prevede qualcosa che l’opinione pubblica non accetta vuol dire che la legge non funziona. La legge deve veicolare sempre l’idea di bene e male, di giusto e ingiusto, cioè veicolare l’idea di ciò che è contenuto nella vita buona.
Alcuni ritengono che lo Stato debba trasfondere nella legge l’idea di vita buona mentre altri si oppongono dicendo che lo Stato non deve violare la neutralità, cioè non deve privilegiare una concezione di vita rispetto ad un’altra, altrimenti verrebbe meno l’imparzialità.
In tutti i sistemi socio-politici ci sono alcuni valori e concezioni più visibili, più urgenti e altri non urgenti. Nella società libera riconosciamo che è giusta la libertà di parola e di stampa. Siamo anche in grado di dire che è migliore la società che riconosce la libertà rispetto ad altre che negano certi diritti.
Si accusa la Chiesa di entrare nello spazio pubblico con vigore.
Si proclama l’autonomia.
Che significa una completa autonomia? Nessuno mi può giudicare.
La vita civile si manifesta con criteri e principi autonomi nei vari settori dell’economia, della politica e della scienza.
Oggi si dice che i cittadini nei meandri della vita civile devono vivere come se Dio non ci fosse (“ Etsi Deus non daretur…).
Il liberalismo del Settecento e dell’Ottocento ha derivato gran parte della sua forza dalla dottrina del diritto naturale legato alla dottrina dei diritti innati e imprescindibili della persona umana.
La concezione liberale prevalente interpreta il diritto come uno strumento di regolazione sociale e i diritti dell’uomo soltanto come un confine rizzato verso lo Stato.
Nel pensiero politico contemporaneo, cioè nelle attuali liberal democrazie, l’aspetto di come educare il cittadino è omesso. Prevale l’idea di trovare le regole di giustizia, le regole del gioco che consentono la convergenza degli interessi, come se il buon comportamento seguisse l’aver tracciato le procedure giuste.
Le procedure sono una cosa e il comportamento è altra cosa.
La pedagogia politica nel senso alto e intenso del termine è estranea nella politica di oggi. Si riscontrano soltanto procedure e tecnologie dell’educazione, usate in modo sminuzzato in una società pluriculturale.
Il bilanciamento dei poteri nelle liberal democrazie significa che c’è da un lato un pessimismo antropologico e dall’altro un ottimismo misurato nelle capacità della ragione di poter dominare la realtà. L’esperienza insegna che il potere cerca di bilanciarsi e tende a prevaricare, cioè chiede per sé ciò che spetta agli altri.
La prevaricazione dei politici è sempre possibile per cui i tre poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) devono essere limitati.
In Italia c’è un tentativo di forte dibattito tra classe politica parlamentare e potere giudiziario. C’è conflitto tra i tre poteri che cercano di bilanciarsi.
In Machiavelli il principe sovrano ha in mano tutto e la prospettiva della separazione dei poteri non è mai evocata.
In Bodin non c’è ripartizione dei poteri perché il sovrano è irresponsabile nel senso che non deve rispondere a nessuno. I suoi collaboratori sono scelti dal sovrano che eventualmente risponde a Dio ma questa è risposta metapolitica.
Nella monarchia assoluta di Luigi XIV il sovrano assoluto è sciolto dalle leggi. L’autorità suprema proviene da Dio ed è assegnata al popolo che ne trasferisce l’esercizio al re.
Il vettore dell’autorità nello Stato assoluto va da Dio al sovrano.
Nel governo democratico il vettore dell’autorità proviene dal basso, cioè dal popolo che elegge i suoi rappresentanti, investendoli dell’autorità necessaria al governo.
Per Platone e Agostino, la giustizia è l’utilità del più forte, è stare al proprio posto e rispettare la legge.
Per Aristotele la giustizia e l’amicizia civica tengono assieme la vita sociale.
Per Machiavelli lo scopo della politica è l’acquisto, il mantenimento e l’ingrandimento dello Stato. Il principe è abilitato a dire, disdire, giurare, spergiurare, a dire il falso, a non aver pietà, a non avere religione, ad essere crudele pur manifestando sentimenti contrari.
Per Hobbes il simbolo della sovranità è il “mostro” Leviatano che terrorizza e rappresenta la suprema potestas. Lo Stato ha la sovranità assoluta.
Significativo è il pensiero di Max Weber che nella sua opera, “La politica e la scienza come professioni”, si pone la domanda: “Cos’è la politica?”. Politica è esercitare influenza su associazione (società) politica che è uno Stato. Lo Stato per il sociologo tedesco è comunità umana che, nei limiti di un territorio, esige per il monopolio della forza fisica legittima. Stato e politica sono lo stesso. L’essenza della politica sta nel rapporto tra dominanti e dominati. I dominanti utilizzano il monopolio della forza legittima, cioè secondo il diritto vigente dello Stato. La natura dello Stato per lo scrittore tedesco è l’accentramento del monopolio dell’uso della forza secondo le regole, cioè secondo il diritto positivo.
Tutto è valido in un determinato territorio, cioè nei confini dello Stato. Politica è aspirazione al potere, cioè è potenziare, influenzare su ripartizione dei poteri tra Stato e i suoi ambiti, cioè tra gli uomini. Nel pensiero del filosofo non compare il bene comune, cioè la buona vita delle persone. Per lo storico tedesco esistono tre forme di autorità: la forma tradizionale in cui il potere si trasmette di padre in figlio o secondo la tradizione; la forma carismatica in cui il capo è dotato di potere superiore, cioè di carisma; la forma legale come nelle liberal democrazie dove c’è il potere legale, cioè l’elezione secondo le regole.
La dominazione in forza della legalità sta in piedi perché i cittadini credono nella validità delle norme di legge e nella competenza della burocrazia.
Lo storico e sociologo tedesco preferisce l’autorità di tipo carismatico.
L’opera è scritta tra il 1918 e il 1919 quando in Germania la popolazione chiede di uscire dalla sconfitta e andare verso una scelta. C’è in atto una guerra civile tra le parti: chi vuole un sistema politico come era prima, chi si batte per il tipo socialistico, chi vuole la liberal democrazia e c’è anche chi vuole la rivoluzione come i comunisti. È la tragedia del popolo tedesco. Chi è la causa della sconfitta? C’è chi afferma che la causa della sconfitta è nel complotto massonico-giudaico.
Per Weber il sovrano, cioè il capo politico deve tenere in mano l’amministrazione tramite gli uomini. Si crea il ceto politico, cioè il vincente ceto politico, gli uomini che vogliono far parte del potere, la burocrazia, gli amministratori pubblici che si spartiscono le cariche. Il partito vincente crea una metamorfosi.
Chi esercita il potere, per lo scienziato sociale tedesco, deve possedere assieme passione, responsabilità e lungimiranza. La responsabilità è intesa nei confronti della 1^ causa scelta, cioè è responsabilità interna.
Il politico di professione deve influenzare in profondità la vita degli altri. Il vero capo politico deve dedicarsi completamente alla causa con passione e questa va attinta a tutti i valori e disvalori senza distinzione, anche alle forze irrazionali. La lungimiranza del capo è prendere distacco da sé e dalle tradizioni, cioè distaccarsi da tutto ciò che è immediato senza fare confusione. Si tratta di guardare lontano senza vanità.
L’etica tradizionale non è in grado di stabilire la graduatoria dei valori per lo scrittore. La ragione non trova una via di uscita. Soltanto l’etica della responsabilità, cioè la convinzione della propria aspirazione alla potenza, del proprio istinto di potere verso la causa. La causa è sorretta dalla fede nel potere irrazionale, scelto senza motivi, senza ragioni. Nell’etica weberiana ogni scelta vale l’altra, cioè non c’è possibilità di scegliere in maniera fondata alcuni valori al posto di altri. L’etica del popolo e la politica sono estranee. La politica ha a che fare soltanto con la potenza.
Si tratta di fare ciò che è giusto con convinzione e le conseguenze devono essere lasciate agli altri, cioè seguire l’etica politica della responsabilità interna verso la causa scelta e attuare la politica della potenza. L’etica politica non può fare a meno della violenza.
Non c’è mediazione tra l’etica della convinzione perfettista che rifiuta la violenza, cioè l’amore evangelico, e l’etica politica che usa la forza.
Per Weber la politica è al di sopra del diritto. L’ordinamento giuridico è solo strumento di potenza.
Oggi le social democrazie seguono il pensiero di Kelsen che è stato uno degli artefici della costituzione di Vienna del 1920, dopo la Prima guerra mondiale.
Weber e Kelsen sono stati elementi fondamentali per le cause del totalitarismo. L’Europa ha vissuto le sue tragedie.
Oggi, il clima è cambiato.
L’ordinamento giuridico è pensato da alcuni politici come sovrano e generale nel divenire generale positivo. Il potere giuridico stabilisce ciò che a lui conviene. La spinta della potenza perviene su tutto. La legge valida è solo quella del potere in vigore che stabilisce ciò che lui ritiene utile per tutti.
Il diritto naturale è ritenuto come cosa che sia ingiusta o giusta in sé senza alcuna influenza sulle decisioni del potere assoluto. I rappresentanti eletti dal popolo non tengono conto della coscienza delle persone, l’unica idonea a stabilire ciò che è giusto o ingiusto, cioè la morale dei cittadini a cui lo Stato riconosce la cittadinanza.
La cittadinanza è pienezza dei diritti civili, politici e sociali da parte dei cittadini, cioè il loro modo di essere, il loro status e il loro rapporto con lo Stato.
La posizione di Kelsen si allinea a forme ostili alle istanze di giustizia delle persone che chiedono il confronto dei valori. Non si tratta di scegliere come vuole Weber, cioè ognuno sceglie a modo proprio, ma di tener conto di ciò che è tradizione e modo di sentire del popolo.
Il pensiero degli autori, ritenuti classici nel campo della filosofia politica, della scienza politica, della sociologia, del diritto, della storia, che hanno studiato la vita dei popoli europei, ci aiuta a capire l’attuale società italiana e i turbamenti sociologici di Gian Enrico Rusconi.
Il politologo si riferisce all’attuale dialettica tra i cittadini in merito alle questioni della vita. Il professore rifiuta l’intervento degli esponenti della Chiesa che esprimono le loro opinioni per indirizzare i credenti e i diversamente credenti a fare delle scelte attinenti alla morale tradizionale degli Italiani.
Il docente utilizza i concetti della democrazia comeslogan” per ottenere il consenso dell’uditorio scolastico. Si enfatizza lalaicità” come principio fondamentale della democrazia. Si chiama in causa la cittadinanza per imporre ai cattolici il “dovere” di rispettare la laicità. Si mettono in guardia i cattolici a non strumentalizzare la democrazia per difendere i “valori inviolabili”. Si parla di libertà dei cattolici. Si accusano i cattolici di controllare la sfera pubblica e di influenzare il discorso pubblico. Si lanciano proclami in lingua latina per richiamare il primato del potere (auctoritas) della legge. Si utilizzano spezzoni di testi in latino (…etsi Deus non daretur…), attribuiti a scrittori cristiani che seguivano la legge naturale, avvertita dai loro intelletti perspicaci e dai loro cuori generosi, per indurre i cittadini a vivere come se i valori della vita, riconosciuti storicamente da tutti i popoli, non esistessero.
Il politologo induce i presenti a credere che "la nostra è una società in cui non esiste alcuna Auctoritas".
Il concetto dilaicità” è invocato in tanti modi come un “dio-laicità” che deve essere sempre venerato e deve essere garante in ogni trattativa pubblica e privata.
L’idea dellalaicità”, scaturita dalla ragione, diventa un frutto del razionalismo costruttivo e volontaristico e viene trasformata empiricamente e con ingegno in ideologia che può portare a conseguenze totalitarie.
Qual è l'auctoritas che il professore accetta come primato?
La società politica italiana ha scelto la democrazia, ha stabilito di reggersi con forma repubblicana e costituirsi in Stato, retto da norme costituzionali.
Il popolo italiano, come società politica costituita, cioè come insieme di coscienze personali che, avendo una storia in comune attestata dall’unità del linguaggio, avendo scelto di vivere insieme con giustizia e cultura civica, ha deciso, dopo la Seconda guerra mondiale, di autogovernarsi, di eleggere i propri governanti e l’Assemblea costituente che danno agli Italiani la Costituzione della Repubblica.
Nella società, prodotto di ragione e forza morale, la priorità è data dalla coscienza personale. Il popolo è fatto di persone umane che si riuniscono sotto giuste leggi e da reciproca amicizia per il bene comune della loro esistenza.
Il pensiero repubblicano democratico assegna grande rilievo alle virtù civiche. La Repubblica con l’articolo 2 della Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità.
Il cittadino, dopo le grandi rivoluzioni politiche in cui ha chiesto la libertà da tutti i legami che impediscono il suo sviluppo naturale, esige la libertà di partecipazione politica. Nella piazza pubblica è meno sentita la resistenza al relativismo etico, tramandato dalla Rivoluzione Francese, e il rapporto civile diventa anche rapporto morale.
La Carta costituzionale è l’evento fondamentale di convivenza: Il popolo italiano si dà la presente Costituzione in cui sono elencati i diritti e i doveri dei cittadini. Gli articoli elencano i principi strutturanti della società, i diritti e i doveri fondamentali e l’Ordinamento della Repubblica (Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo, Magistratura, Regioni, Provincie, Comuni, Garanzie costituzionali).
Nel momento in cui il popolo esercita il suo diritto naturale e inalienabile all’autonomia e all’autogoverno si pone come sorgente di autorità dal basso e come fondamento di politica democratica.
L’autorità risiede nel popolo che si autogoverna e trasferisce l’esercizio dell’autorità ai propri delegati parlamentari con procedure elettorali di cinque anni. I rappresentanti del popolo sono investiti di autorità in modo limitato e la esercitano in nome del popolo nella forma di potere esecutivo nel Governo, nella forma di potere legislativo nel Parlamento e nella forma giudiziaria nella Magistratura. Il popolo rende partecipi della sua autorità i suoi rappresentanti senza vincolo di mandato e questi sono responsabili nei suoi confronti e non possono emettere leggi senza il consenso dei cittadini. Il diritto di comandare è del popolo che ne trasmette l’esercizio per partecipazione a coloro che sono chiamati a comandare. Il diritto dei governanti a comandare e il dovere a rispettare la legge risiede nel fatto che il popolo investe i governanti a governare.
Da dove nasce il motivo del confronto politico nella sfera pubblica e nello spazio pubblico distinti da Rusconi?
I cittadini avendo codici di riferimento morale lontani non possono mettersi d’accordo su cose fondamentali per cui si ricorre a procedure della piazza pubblica, ciò che conta sono le procedure, cioè le regole del gioco politico. Il problema è dato dai contenuti che sono lasciati fuori dalle regole che stabiliscono soltanto chi deve prendere le decisioni.
Il pluralismo morale richiede che lo Stato e la legge dello Stato devono lasciare ai singoli di scegliere la strada per sviluppare la loro dignità. Lo spazio pubblico è luogo di interessi e di valori. Tutto viene pubblicizzato e i valori divengono oggetto di discussione perché non possono essere misurati economicamente in quanto hanno dignità
Lo Stato ha le sue radici nella società politica, cioè è strumento del corpo politico. Nella società democratica c’è idea di socialità ascendente, lo Stato emerge come autoorganizzazione della società. Il fenomeno dello Stato è espressione al sevizio di persone, cioè è parte della società politica e deve curarsi del bene pubblico, inteso come sicurezza, istruzione e universalità della legge.
La Costituzione italiana ( articolo 7) definisce anche la distinzione tra Stato e Chiesa. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Il problema del rapporto tra religione e politica viene affrontato con la Costituzione perché i cittadini sono usciti dagli schemi dell’Illuminismo che vedeva la religione come fatto privato della coscienza.
La religione della Chiesa nasce da eventi storici e intende svolgere un ruolo non soltanto nelle coscienze ma anche nella società. La grande maggioranza dei membri della Chiesa è costituita da cittadini che non sono né sacerdoti né appartenenti a ordini religiosi ma semplicemente credenti, cioè laici (da parola greca = membri del popolo) che vivono la realtà del mondo contemporaneo e cercano di animarlo con le loro capacità fisiche e razionali.
Nella Costituzione non c’è il termine laico o laicità.
Nell’Accordo di revisione del Concordato lateranense del 18 febbraio 1984 è scritto: “La Santa Sede e la Repubblica italiana, tenuto conto del processo di trasformazione politica e sociale verificatosi in Italia e degli sviluppi promossi nella Chiesa dal Concilio Vaticano II… la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale… È ugualmente assicurata la libertà di pubblicazione e diffusione degli atti e decisioni relativi alla missione della Chiesa…È garantita ai cattolici e alle loro associazioni organizzative la piena libertà di riunione, di manifestazione del pensiero con le parole, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
Nel Concordato non sono usati i concetti di sfera pubblica o discorso pubblico ma si parla di coscienze e modo di essere dei cristiani nella società, cioè della cittadinanza democratica italiana costituita di persone che interagiscono per una vita buona, tenendo presente i diritti enunciati nella Costituzione e i diritti elencati nellaDichiarazione universale dei diritti dell’uomo".
La Repubblica italiana e la Chiesa si sono impegnati reciprocamente per la promozione dell’uomo e il bene del Paese. Si tratta di apertura alla collaborazione della fede. È presente nella formula di collaborazione l’intento che la fede religiosa possa portare qualcosa di positivo per il bene degli Italiani.
Per alcuni la religione e Dio stesso devono essere esclusi dal pubblico a livello di ipotesi e sostengono che le relazioni della vita civile si debbono attuare come se Dio non ci fosse (etsi Deus non daretur). Si tratta di parole desunte dall’opera “De iure belli ac pacis” pubblicata nel 1625 dall’olandese Ugo Grozio. Nel trattato Grozio parla di diritto naturale che è universale e oggettivo, questo varrebbe anche se Dio non ci fosse.
La posizione “come se Dio non ci fosse” diventa la base dello spazio morale pubblico che si definisce come spazio in cui vale l’ipotesi “come se Dio non ci fosse”.
Altri, tra cui Rusconi, si riferiscono al pensiero del teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer, ucciso dai nazisti nel campo di concentramento di Flossenburg il 9 aprile 1945. Il teologo nei suoi scritti chiede di vivere nel mondocome se Dio non ci fosse” e ritiene che questa sia la volontà di Dio.
Bonhoeffer afferma che il Dio davanti a cui stiamo è lo stesso Dio che ci comanda di fare a meno di Lui nelle cose mondane. Questo è inteso dallo scrittore luterano come se l’uomo di fede debba decidere facendo a meno dell’ipotesi di Dio.
Quanto sostiene il teologo suscita delle obiezioni perché con l’idea di un Dio che ci fa conoscere che dobbiamo affrontare la vita senzal’idea di Dio”, sembra togliere l’influsso positivo del Cristianesimo sulla vita civile.
Alcuni utilizzano le parole del teologo tedesco perché ritengono vincolante la proposta cristiana di vita che deve essere abbandonata. I problemi etici debbono essere gestiti facendo riferimento all’ordinamento giuridico italiano. Altri sospinti dallo spirito rivoluzionario della tecnica non accettano imposizioni ultramondane.
Hans Kelsen che nei suoi scritti afferma: “Coloro che assumono verità ferme non sono veri democratici”, perché i veri democratici devono sempre ammettere che la verità varia con il gioco di maggioranze e quindi non esistono verità ferme.
Il discorso pubblico è influenzato dal pensiero di Kelsen per il quale è valida la formula: “Il potere vigente fa la legge e non la verità”.
Durante la Rivoluzione francese, nella democrazia giacobina, il principio assembleare è alla base della legge. Il potere assoluto dell’assemblea è legge. È l’anticamera del Totalitarismo.
In Kelsen il potere della maggioranza è legge. La democrazia è il potere assoluto della maggioranza. Il principio maggioritario diventa unica regola di ordinamento, cioè diventa principio ordinativo della democrazia e assume valore assoluto.
Rusconi dice: “Laicità è modo di concepire la vita in maniera democratica. La democrazia delle regole: visione di vita diversa”.
Il desiderio illuministico del professore di separare la Chiesa e lo Stato, senza tener conto di quanto concordato tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, si traduce in un continuo stillicidio di articoli e discorsi pubblici che mirano a impedire con la parola “laicità”, le istanze dei cattolici agli organi dello Stato per il rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singoli , sia nelle formazioni sociali ove si svolga la loro personalità, come previsto dall’articolo due della Costituzione.
I patti devono essere osservati (così si esprimeva l’olandese Grozio).
Lo spirito rivoluzionario costruttivistico e volontaristico, nato con la Rivoluzione francese ed ancora presente, non può imporre oggi il potere giacobino con il dogmatismo della legge.
La democrazia costituzionale della Repubblica italiana garantisce la cittadinanza a tutti, anche ai cattolici.
Per Rusconi non esiste alcuna Autorità in grado di far fronte alla nostra società decaduta.
A quale autorità si riferisce?
Al potere del “principe” di Machiavelli che separa politica e morale?
Al potere dello Stato di Hobbes che tiene sia la spada sia il pastorale (potere temporale e potere religioso) per imporre la legge con la forza?
Al potere dello Stato sovrano di Bodin ( quello di Luigi XIV) che è distaccato dal popolo?
Al potere della democrazia giacobina, nata dall’illuminismo radicale, che, imponendo la legge dell’assemblea, senza tener conto delle esigenze del popolo, apre al totalitarismo di Napoleone e dei governi che impongono un progresso industriale senza tener conto dei veri problemi della cittadinanza?
Al potere giudiziario neutro del monarca costituzionale descritto dal liberale francese Benjamin Costant?
Al potere della democrazia federalista di Proudhon?
Al potere legale razionale del tedesco Weber che apre ai regimi totalitari e catastrofici del Novecento?
Al potere della legge di Kelsen, esclusiva espressione di arbitrio?
Al potere dell’ideologia della “laicità” che, seguendo il mito dell’Illuminismo, presagisce l’avvento di un nuovo regime autoritario che non tiene conto delle coscienze dei cittadini?
Dove guarda la saggezza di Rusconi?
Dov’è il primato del suo potere? Nel dogma della legge vigente?
I miti dell’Illuminismo sono ancora forieri dilaicitào promotori di libertà per le coscienze?
Gli interrogativi sorgono spontanei perché le parole dell’intellettuale sono piene di significati che ci spingono a ripercorrere il pensiero politico moderno, dalle origini fino ai nostri giorni, per capirne il senso e le allusioni.
La sua sapienza desta in noi meraviglia e le sue parole, espressione della sua anima, piene di rancore nei confronti di Benedetto, chiamato per servire, con la sua ragione e la sua fede, i cattolici, scuotono le nostre coscienze e ci fanno gridare il nostro “” alla vita e alle relazioni umane.
Gli Italiani, con la loro ragione e volontà, sapranno attingere alla loro fede nel progresso interno della vita e della loro storia, alla forza della loro libertà, posta al centro della cittadinanza, quale apertura di fini e di senso del loro futuro.