venerdì 30 novembre 2007

MERCANTI VENEZIANI A COSTANTINOPOLI - Cap. I



Lo sbarco

Il capitanio della galea, ser Giovanni, ordina di mostrare il gonfalone e di far suonare i tamburi. Lo stendardo della Serenissima Repubblica, su cui è caricato con filo d’oro il Leone di San Marco, è inalberato sulla nave, ormeggiata alla banchina del porto di Costantinopoli. L’emblema della potenza commerciale di Venezia brilla sotto il sole di mezzogiorno. Tutti i Veneziani della colonia fanno festa con il loro governatore, chiamato bailo, ser Benedetto Emo, ambasciatore presso l’imperatore, il basileus Manuele II Paleologo.
Il comandante della Capitana, così si chiama la galea, scende dalla nave e corre ad abbracciare il suo amico.
“Sono lieto di vederti – esclama ser Giovanni – e orgoglioso di portarti una galea piena di mercanzia pregiata e di tanti amici che vogliono vendere cose preziose”.
“Sono sicuro – risponde il bailo - che tutti faranno buoni affari e desideroso di accogliere coloro che mi parleranno di Venezia”.
L’incontro tra i due patrizi è accompagnato da grida di giubilo dei residenti e dell’equipaggio.
Sulla galea grossa da mercato c’è il giovane Francesco, imbarcato in qualità di balestriere della poppa ed inviato per far pratica di ragioneria nell’impresa commerciale della famiglia di ser Benedetto. Sulla nave c’è anche il giovane patrizio Marco, anche lui balestriere. Suo padre, senatore e appartenente ad un’antica famiglia patrizia, lo ha inviato per fare acquistare al figlio un minimo di pratica commerciale negli uffici governativi del bailo. I due giovani sono diventati amici prima dell’imbarco, durante l’addestramento al tiro della balestra, organizzato dal “Comune” nei campi del Lido. Durante il viaggio, iniziato il 15 luglio 1422 e terminato oggi, dopo due mesi di navigazione, i due tiratori di balestra hanno conosciuto nobili, cittadini e popolani, tutti imbarcati per scambiare o vendere la loro mercanzia nella città d’oro, sogno di tutti gli uomini desiderosi di ricchezze e di onori.
L’equipaggio dell’imbarcazione, costituito da 207 uomini tra ufficiali, maestranze, marinai, vogatori, nobili saliti per addestramento, mercanti viaggiatori, è in fermento e si prepara allo sbarco.
I primi che scendono attraverso la passerella sono tre mercanti viaggiatori con i loro servi e gli oggetti personali: bauli, valigie ed armi. I giovani nobili, assiepati sul ponte di poppa, rivolgono gli sguardi a un viaggiatore, salito a Negroponte, porto veneziano dell’Egeo. Il passeggero è seguito da un’esile figura di donna con il capo e il volto coperto da un velo di seta bianco. Un bisbiglio corre tra gli ufficiali e i patrizi: “È il figlio dell’imperatore”.
Il capitanio e il bailo salutano, secondo l’usanza del luogo, il rappresentante della casa regnante che ha scelto una galea veneziana per viaggiare attraverso il mar Egeo, solcato da navi ostili al basileus.
Suoni di trombe, schieramento di cavalieri e carri con stemmi e stendardi imperiali accolgono il principe che lascia il porto, accompagnato da grida festose e frasi augurali.
Il comandante della Capitana ritorna a bordo per controllare personalmente le operazioni dello sbarco della mercanzia e chiama il suo scrivano di bordo: “Tommaso, controlla insieme a Francesco, aspirante ragioniere al commercio del nostro governatore della colonia, i registri di viaggio e accertati che le quantità, annotate sui libri, corrispondano a quelle stivate. Ogni involucro dei panni deve avere il suo segno distintivo, quello annotato alla partenza. Ad ogni destinatario la sua mercanzia che corrisponde al nolo pagato, come risulta dal Registro dei noli”.
Anche il balestriere ha udito l’ordine e, attraverso il boccaporto centrale, scende sottocoperta. Tommaso lo invita a fare la ricognizione della mercanzia: “Francesco, aiutami a controllare i colli per consegnarli ai mercanti o ai loro agenti commissionari che stanno arrivando con i bastasi della colonia, addetti allo scarico. Iniziamo a vedere quello che c’è nella prima stiva che è la più grande”.
Lo scrivano legge sul registro e conta 252 colli, ognuno con il segno distintivo del destinatario. Si tratta di merce pregiata ed ogni involucro si aggira intorno alle mille libbre.
Francesco chiede: “Cosa contengono questi involucri?”
“Nella parte sinistra del registro – risponde Tommaso - è indicato che si tratta di merce di ser Domenico: panni bastardi, panni loesti, panni farisee. Inoltre ci sono dei sacchi che contengono stagno per un valore di 2200 ducati d’oro. Si tratta di mercanzia che proviene da Londra”.
Il fiduciario del capitanio controlla che gli involucri non siano stati manomessi o danneggiati e si accerta della loro integrità, per evitare le richieste di risarcimento al Consiglio del bailo.
“Tommaso, cosa contengono i colli con questo segno?”
Lo scrivano risponde: “Sono panni da 60 da Padoa, panni da 65 da Padoa, panni da 40 da Venexia, panni da 40 da Venexia contraffati alla Fiorentina, panni Vexentini, panni da Parma. Tutti di proprietà di ser Giacomo”.
Dalla prima stiva passano alla stiva più vicina alla poppa, dopo il comparto dello scrivano e l’armeria della nave. La seconda stiva è più piccola della prima, ma contiene merce più pregiata.
“Francesco, controlliamo tutto ciò che c’è qui – esclama il fiduciario - e verifichiamo l’esatta corrispondenza con il registro di carico”.
Sul lato destro della stiva ci sono: 60 casse contenenti conterie e chincaglierie, cioè i paternostrani, prodotti a Murano, di proprietà di ser Alvise; 25 sacchetti, chiusi e con il sigillo di San Marco, contenenti ventiduemila ducati d’oro, destinati al bailo, per le esigenze del governo della colonia. Sulla sinistra sono allineate: 32 borse di grossi d’argento destinati al banco di ser Francesco, per un valore di diciottomila ducati d’oro; 4 bauli pieni di vesti di seta pregiata, lavorate con filo d’oro e d’argento nelle botteghe di San Lio, San Salvatore e San Zulian. Il valore dei quattro bauli, pieni di ormesini, zendadi e broccati, è di cinquemila ducati, destinati a ser Antonio, agente commissionario di un ricco mercante residente a Venezia. In fondo alla stiva ci sono 5 casse contenenti lingotti d’argento, per un valore di ventimila ducati d’oro, destinati a un banchiere greco, intermediario della zecca imperiale.
Lo scrivano, dopo la verifica, chiude la stiva con la chiave e fissa negli occhi il balestriere di guardia: “Alvise, non fare avvicinare nessuno”.
“Francesco, saliamo in coperta e riferiamo al capitano che la ricognizione nelle stive ha avuto esito favorevole e che i colli non sono stati danneggiati”.
Il comandante, sul castello di poppa, impartisce ad ogni ufficiale e sottufficiale gli ordini perché lo sbarco della mercanzia e degli uomini avvenga secondo le prescrizioni marinare di San Marco. Ogni uomo dell’equipaggio è addestrato all’esecuzione minuziosa delle procedure per la sicurezza propria e della nave. L’esperienza acquisita da ognuno sulle galee dello Stato, dopo l’apprendistato giovanile, facilita e rende più spedite tutte le operazioni.
“Scrivano, finalmente sei tornato – esclama ser Giovanni -per assicurarmi che il carico non ha subito danni. Gli agenti commissionari e gli inviati dei mercanti sono impazienti di portare la mercanzia al magazzino della colonia”.
“Fate salire a bordo – continua il capitanio - i rappresentanti dei mercanti residenti con i loro fiduciari. Tu, Tommaso, annota sul registro ogni consegna ed accertati che i colli abbiano il segno del destinatario corrispondente alle note di carico che abbiamo consegnato alla partenza. Fatti aiutare da Francesco. Attenti alle barche che si sono affiancate alla galea per lo scarico”.
Uomini addetti alla sicurezza della banchina, doganieri, mercanti, agenti commerciali, rappresentanti del Consiglio del bailo, intermediari commerciali e di banco, facchini, carri e bastasi per portare i colli al magazzino della colonia. Tutti sulla banchina per ricevere, controllare e portare a destinazione il prezioso carico della Capitana.
“Domenico, tu sei l’ufficiale di rotta – esclama il comandante - stai attento che i rematori non facciano commercio con i barcaioli che si avvicinano alla galea. Fatti aiutare dal capo dei rematori e dai balestrieri”.
Le stive vengono svuotate. Il sole sta tramontando e l’attenzione del capitanio viene rivolta agli uomini della sua nave, tutti piccoli mercanti, desiderosi di scendere dalla nave per i propri affari. Ognuno ha la sua mercanzia, esente dai noli, portata al seguito, secondo le quantità stabilite dal Serenissimo Governo. La loro merce è custodita dentro appositi contenitori, distinti per ufficiali, sottufficiali, marinai e rematori. La “portata” dei rematori è fissata in dieci ducati d’oro dal Senato. Ognuno custodisce sotto il proprio banco, dove lavora, dorme e mangia, qualcosa che deve fruttare tanto danaro da realizzare il “sogno del mercante”.
È l’ora del rancio. Il capitanio riunisce alla “mensa di poppa” gli ufficiali e i nobili dell’equipaggio, tra cui c’è anche il “patrono” della galea, ser Pietro, rimasto a bordo per le ultime decisioni e per presenziare alla consegna di ciò che è ancora custodito nel forziere dell’alloggio del capitanio: uno scrigno d’argento. Nessuno sulla nave, al di fuori del capitanio e del patrono, è a conoscenza del suo contenuto: si tratta di un “segreto di Stato”.
Ser Pietro, uno dei quattro caratisti che hanno vinto l’appalto della galea, aggiudicata per 1400 ducati d’oro, non solo è un mercante viaggiatore esperto di gioielli, ma è anche un agente commissionario, per la vendita di stoffe, per l’acquisto di pietre preziose e di spezie, per conto di altri mercanti residenti.
La lanterna, posta sulla poppa, viene accesa e un bagliore si diffonde e illumina i volti degli uomini della galea, intenti a consumare il pasto serale, preparato dal cuciniere di bordo: lo scalco. Nessuno fa “battute” sul cibo distribuito ma i discorsi vertono sul commercio; ognuno racconta al vicino come intende vendere o barattare la sua mercanzia.
Gli ordini del comandante sono ripetuti per tutto la nave: “Nessuno può lasciare la galea durante la notte. Il servizio di guardia deve essere accurato in ogni angolo. Nessun forestiero può salire a bordo prima dell’alba. La paga del secondo mese sarà distribuita dal contabile l’indomani, dopo la distribuzione della colazione”.
I capitanio e i suoi ufficiali sono riuniti a mensa, al secondo piano del castello di poppa, sopra l’alloggio dove è situato il forziere.
Ser Giovanni esprime il suo pensiero: “Ser Pietro, domani si deve pagare, bisogna dare a tutti la possibilità di investire. Lo scrivano pagherà secondo il contratto, aiutato da Francesco. Se sei d’accordo si possono anticipare, a richiesta solo dei rematori e dei marinai, i ducati che dovrebbero essere pagati al ritorno, previsto con la prossima muta autunnale di novembre”.
La risposta è immediata: “Sono d’accordo con te”.
“Domenico, all’alba ci vediamo qui con ser Pietro – ordina il capitanio - per una faccenda importante, prima della distribuzione della paga”.
“Tu, Andrea, comito di questa galea, disponi un servizio di guardia con la partecipazione di tutti i giovani ufficiali imbarcati per l’addestramento, compresi i balestrieri della poppa; i giovani patrizi della Repubblica devono imparare ad essere sempre svegli. Il castello di poppa deve essere costantemente presidiato e nessun marinaio o rematore si deve avvicinare al boccaporto di questi alloggi”.
Le notti di settembre, qui a Costantinopoli, fanno sognare. I marinai, sistemati tra i banchi sopracoperta, guardano il cielo stellato e, pensando alla casa lontana, fantasticano un ritorno prospero e felice.
Sulla nave c’è chi sorveglia e vigila. Il punto di approdo è circondato da una grossa catena. Nessun forestiero può avvicinarsi.
Appare l’alba. La città sta ancora dormendo. Si sente un galoppo proveniente da Ovest, lungo le mura marittime che si affacciano sul grande porto di Costantinopoli, lungo l’estuario del Corno d’Oro. Il comandante è già al suo posto sul castello di poppa, attorniato dai suoi ufficiali. Una leggera brezza gonfia lo stendardo di San Marco. Dalla porta di Perama, adiacente all’allo scalo, escono dei cavalieri con le insegne imperiali. Il battito del tamburo della galea risponde al suono delle trombe imperiali. I cavalli si arrestano alla catena che circonda il punto di approdo.
Un nobile cavaliere scende dal suo destriero e chiede di salire a bordo. Il capitanio fa disporre la passerella e, accompagnato da due giovani patrizi veneti, scende dalla nave per accogliere l’ospite atteso.
“Sono Andronico – esclama il cavaliere - primo ministro del basileus Manuele, ho l’ordine di scortare il capitanio di questa galea al palazzo imperiale delle Blacherne”.
“Sono Giovanni, il comandante della nave. Sono pronto a seguirti con il mio ufficiale, ser Domenico, e con il nobile ser Pietro, incaricato dal nostro Serenissimo Principe, il doge Tommaso Mocenigo, di portare uno scrigno all’imperatore”.
I patrizi di San Marco, scortati dalla Guardia Variaga, lasciano il porto e si dirigono al Sacro Palazzo dell’imperatore, situato nel distretto delle Blacherne all’estremità Nord-Est della città. I cavalieri percorrono la strada interna alle mura marittime lungo il porto del Corno d’Oro ed entrano nella reggia imperiale, costituita da alcuni edifici. Il corteo si ferma davanti al palazzo, sede degli appartamenti imperiali. Nel piazzale, antistante alla residenza dell’imperatore, è presente il bailo con il suo segretario, ser Francesco, esperto non solo di diritto e di letteratura, ma anche della lingua greca.
I nobili veneziani, scortati dai funzionari del palazzo, vengono portati nella sala del trono, dove i principi della famiglia imperiale e alcune nobildonne sono in attesa di accogliere il basileus.
Tra i presenti ci sono alcuni che portano vistosi copricapi e sono oggetto degli sguardi furtivi delle nobildonne. Si tratta di musulmani accreditati alla corte paleologa ed appartenenti alle famiglie regnanti dell’Oriente: Arabi, Turchi seleucidi e ottomani, Mori dell’Africa, principi del Vicino, del Medio e dell’Estremo Oriente. Ogni credente religioso ha nella città il luogo di preghiera inserito nel suo quartiere. Tutti sono mercanti e rispettano le leggi imperiali: il basileus è per tutti il giudice supremo e il legislatore unico della città.
All’improvviso si interrompe il brusio degli astanti e il silenzio domina nella sala.
Il responsabile del cerimoniale di corte, capo degli eunuchi di palazzo, fa sentire la sua voce: “Onore al basileus Manuele II ed al coimperatore Giovanni VIII”.
“Ho interrotto il mio ritiro dalla vita pubblica – dice l’imperatore rivolgendosi agli ospiti – la mia età non mi consente di dedicarmi alla difesa della città, affidata al mio figlio Giovanni che ha respinto nello scorso mese di agosto un sanguinoso attacco dei nemici della città. Alcuni degli assalitori bivaccano fuori le mura terrestri e impediscono l’apertura delle porte. Sono venuto per accogliere gli inviati del Serenissimo Doge che mi ha sempre accolto con tutti gli onori quando sono stato in Occidente, per chiedere aiuto ai regnanti e al venerabilissimo papa che ci sostiene con la sua opera mediatrice. Invoco sempre la Vergine Blachernissa, che ha sempre salvato la città, affinché continui a tenere le braccia alzate per tutti noi. Nel convento, dedicato alla Santa Maria Peribleptos, trascorro i miei giorni di silenzio e di preghiera. Venezia ha custodito da anni un pegno in gioielli che appartenevano alla basilissa Anna, di Casa Savoia e consorte di mio nonno, Andronico III. La mia riconoscenza al Serenissimo Governo Veneto per la restituzione di questo scrigno. La famiglia imperiale sarà sempre riconoscente a chi difende l’imperatore dei Romani e la città consacrata alla Vergine, Madre della Santa Sapienza. Io, che rappresento sulla Terra l’Onnipotente, dichiaro che Venezia ha il diritto di custodire e difendere per sempre il Sacro Palazzo”.
Alle parole dell’imperatore segue di nuovo un silenzio, interrotto da suo figlio: “Viva l’imperatore Manuele”. Tutti gridono: “Viva”.
Il coimperatore, Giovanni VIII Paleologo, accomiata gli ospiti e lascia la sala del trono, accompagnato dai megaduchi imperiali e dalle principesse. Tra le nobildonne spiccano la bella Cleofe Malatesta, moglie del Despota della Morea Teodoro II e la graziosa Sophia di Monferrato, moglie del reggente.
Il bailo e i nobili della “Capitana”, scortati dai cavalieri imperiali, attraverso la piazza del distretto delle Blacherne, la via della chiesa dei Santi Apostoli, l’asse stradale della Mesè e il Decumano coi portici di Domnino, ritornano al quartiere veneziano di Perama, vicino al molo di ormeggio della galea veneziana.
Il territorio della città, formato da una piccola penisola di forma triangolare, è protetto a Nord-Est dalle mura marine, lungo l’estuario del Corno d’Oro, a Sud-Ovest dalle mura marittime, lungo il Mar di Marmara e ad Occidente è difeso dalle mura terrestri del V secolo, fatte costruire dall’imperatore Teodosio II. Il sistema viario principale, che ha la forma di una “Y”, inizia ad Oriente, dalla Piazza dell’Augusteum, antistante al Palazzo imperiale di Costantino il Grande, si biforca dopo circa un miglio. I due rami viari conducono rispettivamente alle mura terrestri, dove si trova il distretto delle Blacherne e alla Porta d’Oro, che si apre sulla via Ignazia che attraversa i Balcani e porta all’Adriatico. Le mura terrestri non sono state mai abbattute dai nemici e quelle marittime sono protette dalle navi da guerra delle repubbliche marinare dell’Occidente che hanno stipulato trattati commerciali e di difesa della città.
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, Costantinopoli ha ereditato la civiltà del Diritto romano che costituisce il fondamento di tutti coloro che vogliono essere liberi. Tutti i popoli sono abbagliati dalla sua grandezza e dalla ricchezza dei suoi abitanti. Il sogno dei mercanti dell’Occidente e dell’Oriente è di vivere qui. La sua magnificenza raggiunge la fantasia di coloro che aspirano alle vette più eccelse dello spirito umano: qui la Sapienza dell’Eterno porta l’anima dell’uomo a identificarsi in ciò che scuote il cuore e lo fa vibrare di amore per tutte le cose belle. In questa città uomini e donne possono darsi la mano, abbagliati dall’Eterno Amore e dimenticare la fragilità dell’umanità stessa: tutti abbiamo gli stessi desideri perché figli dell’unico Padre che addita la Vergine, Madre di tutti gli uomini che cercano la vera felicità.
Tutti i veneziani sognano di diventare ricchi commerciando nell’unico e vero emporio dove ciò che si scambia, si compra o si vende porta a grandi guadagni che soddisfano e rendono contenti. Tutti si guardano negli occhi e si stringono la mano, perché la fiducia tra i mercanti è al di sopra di ogni credenza o tradizione locale. Lo sguardo reciproco nel commercio mette in fuga ogni timore di perdita e tutti si sentono appagati e baciati dalla fortuna.
Il ritorno del capitanio, ser Giovanni, è salutato da tutto l’equipaggio con manifestazioni di giubilo; si attende il suo permesso per poter scendere a terra e fare commercio con tutto ciò che si possiede. Ogni uomo della galea sente di essere un mercante che si trova nel luogo giusto per diventare ricco.
Il comandante della Capitana si mostra a tutti i suoi uomini e impartisce gli ordini: “Si parte fra quaranta giorni e a Natale tutti a Venezia. Il bailo mi ha pregato di essere prudenti perché la città è ancora sotto assedio e le vie pullulano di uomini desiderosi di creare discordie. Tutti siamo sotto la protezione di San Marco, ma occorre avere giudizio e muoversi con cautela”.
“Ser Pietro, tu conosci bene la città – prosegue il capitanio - e potrai accompagnare domani Francesco e Marco al palazzo del bailo, vicino alla piazza del quartiere veneziano di San Marco. Ser Benedetto li attende per l’ora del pranzo”.
“Sono lieto dell’incarico – esclama il nobile mercante – finalmente potrò vedere la nuova bottega fatta aprire dalla famiglia Emo e conoscere i mercanti che la frequentano”.
“Domenico, tu sei l’ufficiale di rotta, ti affido la sicurezza della nave e il controllo del trattamento di bordo della ciurma. Tutti hanno il diritto di commerciare, ma la galea viene prima di ogni affare, perché ci è stata affidata da San Marco. Fatti aiutare dal comito Andrea e dal capo dei balestrieri Simone. I nobili balestrieri e i rematori, che non partiranno con la prossima muta d’autunno, devono essere rimpiazzati con uomini fidati e conosciuti dai Consiglieri del bailo”.
“Continuerò a fare il mio dovere – risponde il funzionario – la vigilanza su questo legno della Serenissima sarà costante. Ogni veneziano è al sicuro sotto le ali del Leone d’oro e può dormire tranquillo durante la notte. Nessuna mano straniera toccherà il sacro stendardo”.
“Andrea, accertati che l’armeria sia a posto e fai tenere sempre chiusa la porta. Le armi del Governo devono sempre essere pronte all’uso, ma ben custodite. Fatti aiutare dal capo dei balestrieri Simone e dai marinai più anziani”.
“Il controllo dell’armeria – risponde l’ufficiale – mi fa sentire sicuro di avere tutti i mezzi per difendere le nostre vite e di ritornare incolumi dalle nostre famiglie. Il Senato ci affida le navi e ci dà anche i mezzi per difenderle dai predoni che infestano le acque del nostro mare. L’incolumità e la sicurezza delle rotte commerciali permettono alla nostra città lagunare di vivere bene e di essere rispettata non solo da tutti i regnanti dell’Occidente, ma anche dalle nuove potenze che vogliono impadronirsi delle nostre rotte marittime ed imporre dazi che soffocano ogni giusto commercio”.
Sulla galea c’è grande fermento per la sistemazione e la conservazione di quelle parti della nave che non saranno adoperate fino alla prossima partenza. Ogni ufficiale, sottufficiale, balestriere, carpentiere, calafato, marinaio, rematore, cuciniere, addetto alla cambusa, addetto alla mensa, nobile e non nobile è attento alla cura della galea.
“Simone – urla il comito – scendi con me in armeria e portati anche Francesco e Marco, sono giovani che hanno ancora tanto da imparare. Chiama il balestriere Nicolò dal castello di prua e il balestriere Biaxio dal castello di poppa”.
L’armeria, situata vicino allo scomparto dello scrivano, viene aperta alla presenza di Tommaso che porta il suo registro per il controllo numerico delle armi.
“Francesco – dice lo scrivano – aiutami a contare le balestre, devono essere 22 e sono riposte nella prima cassa di destra”.
Il loro numero è perfettamente rispondente al registro.
“Niccolò e Biaxio – ordina Simone - coprite con gli oli le parti di legno e le parti metalliche delle balestre e fate attenzione alle corde, vanno sostituite quelle che presentano lacerazioni. Controllate e tenete separati e ben sistemati i dardi da balestra”.
Anche Marco è chiamato a controllare la rispondenza delle armi dal comito: “Marco, insieme a Francesco, verifica la rispondenza delle corazze, dei collari e dei caschetti per la protezione dei rematori”.
Il conteggio richiede un certo tempo. Dopo alcune ore. Tutte le armi vengono controllate nelle loro casse. L’armeria viene chiusa. Il comito e lo scrivano riferiscono in merito all’esito della ispezione alle armi.
Il comandante chiama il secondo ufficiale di coperta, il paron: “Giacomo, controlla le vele , il sartiame e fai deporre tutto con cura nel gavone di prua dai tuoi otto prodieri. Fai un giro tra i banchi dei rematori per le riparazioni necessarie. Chiama il maestro d’ascia Zuane e i nocchieri Battista, Aluvixe, Agnolo e Antonio”.
Il gavone sotto il ponte di prua non solo è adibito al riparo delle vele e delle attrezzature ma è l’alloggio per i nocchieri, considerati marinai esperti e rispettati da tutta la ciurma per la loro esperienza e il loro sapere sulla navigazione. Con loro sono alloggiati i due pennesi Agostino e Piero, marinai anziani in cui è riposta la massima fiducia da parte del paron; il loro compito è di custodire la dotazione di riserva della galea, cioè i materiali di consumo e i finimenti vari per la vita a bordo della galea. Tra di loro c’è anche il barbiere Bonifazio, uomo amabile e sempre disponibile a curare i disturbi e le malattie degli uomini di mare. Tutti lo rispettano per la sua opera e per i consigli che sa dare all’ufficiale di rotta Domenico. Ogni marinaio ha il diritto alla propria cassetta in cui è tenuto ciò che intende commerciare, senza alcun pagamento di tassa.
Marco ed io, Francesco, approfittiamo del controllo dei banchi e ci uniamo al paron. “Ser Giacomo – dice Marco all’ufficiale – io e Francesco vogliamo dare una mano per il controllo dei banchi dei rematori. La verifica dei banchi ci dà l’occasione per salutare i rematori che conosciamo da tanto tempo”. “L’aiuto di nobili balestrieri è sempre gradito – risponde l’ufficiale di coperta – soprattutto se serve a rinsaldare i vincoli di amicizia tra coloro che vogliono commerciare lontano dalla patria. I veneziani che si trovano nelle contrade di altri paesi devono sentirsi fratelli sotto la protezione di San Marco”.
Il controllo inizia dai banchi di coloro che remano a prua, i prodieri che sono sotto la stretta sorveglianza di ser Andrea responsabile della manovra delle ancore, della voga alla prua, dei sartiami e dell’albero della galea. Sulla Capitana i rematori sono tre per ogni banco ed ognuno ha un singolo remo che deve muovere senza interferire con la voga del vicino. I banchi, inclinati a spina di pesce inversa, sono disposti in fila a destra e a sinistra della corsia centrale che divide il ponte in due parti. La corsia si eleva di circa due piedi e mezzo dal ponte della Capitana che dal diritto di prua al diritto di poppa ha una lunghezza di circa ventisette passi. La passerella è piena di cassoni, allineati e ben fermi, in cui gli ufficiali custodiscono i loro oggetti e la mercanzia minuta, esente da qualsiasi nolo.
“Ser Giacomo – chiama Virgilio, prodiere del primo banco di destra – la mia pedana ha bisogno di una sistemata, occorre l’intervento di mastro Zuane. Come rematore più anziano, ho il diritto di essere servito prima degli altri e di correre subito a mettere il mio banchetto sul molo per vendere le collane dei miei amici di Murano”. “Sarai subito accontentato – risponde l’ufficiale dall’alto della corsia – e potrai correre a mostrare la tua merce alle donne della città. Stai attento a non farti abbindolare dalle guance paffute e colorate, qui le donne ci sanno fare con i piccoli mercanti che guardano troppo il viso delle popolane”.
“Voglio vedere tutti i banchi – sostiene il maestro d’ascia – altrimenti non posso rendermi conto dei singoli lavori e delle loro priorità. Bisogna vedere se il materiale di riserva è sufficiente per le riparazioni, altrimenti bisogna provvedere all’acquisto in città. Il viaggio di ritorno nel prossimo autunno richiederà maggiori interventi e una buona scorta di materiale da far conservare ai pennesi. Il remaio Antonio mi ha già comunicato che la scorta di legname si sta esaurendo e molti remi devono essere sostituiti perché non reggono alle intemperie della stagione. Il calafato Carlo sostiene che bisogna sostituire alcune tavole, prima di procedere alla protezione del legno”.
Molti rematori provengono dalle coste della vicina Dalmazia e non sono interessati al commercio. La loro paga è più di due ducati al mese ed è ritenuta congrua. I rematori veneziani sono in maggioranza popolani, uomini liberi, chiamati spesso buonavoglia, affrontano le fatiche del mare per mantenere le proprie famiglie con la speranza di integrare i ducati, guadagnati con la voga, con piccoli commerci.
La compravendita o il baratto di oggetti, per ottenere un giusto guadagno, è l’unica modo per gli uomini onesti di poter elevare il proprio tenore di vita o per far fronte alle esigenze della famiglia. Una città che ostenta ricchezza spinge gli abitanti ad acquisire quegli oggetti ritenuti necessari per mostrare agli altri di essere uomini o donne che ci sanno fare e sanno vivere con dignità. Il mare è per Venezia la via che permette di raggiungere quei luoghi dove gli uomini possono incontrarsi. Lo scopo dell’incontro è quello di scambiare ciò che la propria terra produce in abbondanza o che gli abitanti di quel singolo territorio hanno prodotto con le proprie mani, utilizzando le materie prime che la natura offre spontaneamente a tutti. Il commercio appaga i desideri e realizza i sogni di chi ha speranza e fiducia negli altri. Il mercante cerca il luogo dove poter incontrare un altro che ha la sua stessa volontà di appagare ogni desiderio e al di là di qualsiasi condizione o di qualsiasi sacrificio.
Questo luogo è su un esile lembo di terra che la Natura ha circondato con le acque di mari dove confluiscono fiumi e dove portano le strade dei popoli che abitano tutti i continenti della Terra. Dalle regioni fredde del Nord e dalle calde terre dell’Africa e dell’Arabia, come da quelle dell’Occidente e da quelle dell’Oriente, uomini, desiderosi di incontrarsi, si scambiano ciò che il loro spirito e la loro ragione hanno prodotto, spinti da quel sentimento nascosto di conoscenza e di meraviglia. Una perla meravigliosa e inestimabile è scaturita dalla generosità della Terra e dalla buona volontà degli uomini dove i continenti si toccano con acque in cui si specchiano gli astri del cielo: la città di Costantino. Un uomo, che ha avuto fede in ciò che l’Eterno gli ha mostrato nella sua Sapienza, ha protetto con mura il suolo dove il divino tocca la terra e attira lo spirito umano a trascendere in un mondo di meraviglia e di sogno. Su questo suolo i mercanti si incontrano e creano la meravigliosa città che gli uomini chiamano “Nuova Roma” o la città di Costantino. Costantinopoli è la città che è sempre nuova perché è di tutti coloro che aspirano a rinnovarsi e a credere nel reciproco miglioramento, anche se vincolati dalla propria umanità.
Alla città millenaria giungono coloro che desiderano commerciare o abitarvi. Tutti si sentono responsabili di custodire o abbellire questo luogo. Coloro che detengono il potere cercano di proteggere, ingrandire e migliorare con opere sempre più belle quello che il fondatore ha iniziato.

CONTINUA…

giovedì 29 novembre 2007

LA POLITICA DELLA “PERSONA UMANA”

Cristiani del nostro tempo, animati da un profondo amore per l’Italia, hanno la necessità di unirsi per promuovere una politica riformista, cioè aderente ai bisogni di ragioni di vita e di speranza di ogni essere umano per cui valga la pena di vivere.
Il “Movimento dei Cristiano Riformisti”, animato da uomini e donne che credono nei valori della persona umana, si rivolge a tutti gli Italiani che vogliono mantenere nel tempo presente i principi cristiani che hanno ispirato tutti coloro che ci hanno preceduti nell’amore verso la nostra patria, resa una e indivisibile da coloro che seppero offrire anche la loro vita per il bene di tutti.
Il presidente nazionale del movimento è l’onorevole Antonio Mazzocchi, avvocato patrocinante in Cassazione. Attualmente è segretario di presidenza della Camera dei deputati. Promotore dell’attività di uomini generosi, è impegnato ogni giorno per un’Italia nuova, cristiana e riformista.
La loro azione è stimolata dal pensiero dei grandi filosofi e pensatori della Chiesa Cattolica. Dalle opere degli scrittori cristiani si evincono in sintesi le seguenti considerazioni sulla persona umana:
“Ogni persona ha il diritto di essere rispettata, cioè ha una sua dignità in quanto soggetto di diritto e possiede dei diritti dovuti dalla sua necessità di esistere in libertà, nell’ambito di una società in cui si impegna per il bene di tutti.
Ogni uomo o donna ha in sé un sapere che concerne ciò che deve fare. In questo sapere c’è una morale che scaturisce dalla coscienza di come bisogna fare perché la sua opera sia ben fatta. La morale, insita in ogni persona, è conoscenza di libertà.
L’essere umano con l’intelligenza entra nella sua volontà e decide dei suoi atti con le sue virtù, cioè con le sue capacità di essere prudente, giusto, forte e temperante. Queste sue doti, acquisite con l’esperienza, gli permettono di discernere il bene dal male e di agire in modo da evitare rischi inutili a sé e agli altri.
L’atto morale appartiene al mondo della libertà, cioè al mondo delle relazioni tra le persone. La radice della libertà è la libera scelta, insita nella natura ragionevole di ogni essere umano, che gli permette di governare la sua vita e di badare a se stesso, cioè di agire come essere morale.
Ogni persona ha bisogno di vivere insieme agli altri per esprimere la sua libertà per un interesse comune, in rapporto alla parte di benessere che ne trae, esprime il suo essere politico, inteso come inclinazione a vivere in società. Questo bisogno scaturisce dalla sua necessità di aprirsi alle comunicazioni della conoscenza e dei rapporti di amicizia che esigono di relazionarsi con gli altri.
La società umana è una società di persone e l’unità sociale è la persona umana. Il bene della società, cioè il bene di tutte le persone, è tale se giova alle persone individuali. La persona umana e il bene comune sono in una relazione di dipendenza reciproca.
Il bene comune della città salvaguarda la persona umana soltanto
se è subordinato a tutto ciò che appartiene alla sua libertà di esistere e di relazionarsi con le altre persone.
Nella vita sociale vi è una tendenza ad assoggettare la persona, a
diminuirla, considerandola come un semplice individuo materiale, cioè privo delle sue aspirazioni di libertà e di amicizia. Questo conflitto richiede una soluzione dinamica perché la società si evolve nel tempo sotto la spinta delle istanze di libertà e di aderenza alle necessità del tempo presente. Questa spinta tende a realizzare progressivamente l’aspirazione di ogni uomo o donna a essere trattato come una persona. Questa aspirazione è l’espressione di un ideale attuabile soltanto con lo sviluppo del diritto, della giustizia, dell’onore e con lo sviluppo dell’amicizia tra i cittadini.
La giustizia e il diritto, imponendo la loro legge all’essere umano come ad un agente morale e, rivolgendosi alla ragione e alla sua libertà, riguardano la sua personalità e trasformano la relazione tra la persona e la società. Questa interazione deve concepirsi su di un tipo specificamente etico-sociale, cioè al tempo stesso personalistico e comunitario.
La società politica ha il compito di sviluppare le condizioni di ambiente che portino tutte le persone a un grado di vita materiale, intellettuale e morale necessario al bene e alla pace di tutti i cittadini.
La comunità civile richiede di essere ordinata al bene comune temporale che è materiale, intellettuale e morale perché mira al bene della persona umana. Questo ideale richiede che la politica, l’economia, le soluzioni sociali e l’azione dello Stato soddisfino il principio del male minore, ritenendo che i mezzi di costrizione, purificati dalla giustizia, siano nelle mani di un’autorità che ha il diritto di farsi ubbidire.
Ci si domanda come è possibile una società più umana di fronte alla situazione del mondo presente con tutte le minacce di degradazione. Il male sembra trionfare agli occhi di tutti di fronte al degrado sociale e alle atrocità che appaiono sugli schermi televisivi o sulla stampa quotidiana e periodica.
Lo stato di pace, di benessere e di giustizia sociale dipende dalla coesione tra le persone, cioè dalla forza vitale della solidarietà che costituisce l’anima della società, fatta di ciò che esprimono le persone che si aprono agli altri con generosità, anche a costo del sacrificio, inteso come impegno di sé al servizio degli altri.
Soltanto coloro che permettono la coesistenza e il dialogo delle persone creano una comunità civile che si conserva nel tempo, perché lottano per la giustizia, l’amicizia civica e la fede nell’essere umano che sono la forza che la fa vivere”.
Il manifesto programmatico del Movimento dei Cristiano riformisti evidenzia la situazione dell’Italia che vive una fase particolarmente convulsa della vita democratica e chiama tutti i cristiani, uomini e donne, ad unirsi per “ripartire da un riscatto etico-morale che, prima umano e poi politico, consenta una cesura con il passato e una speranza per l’avvenire”.
Il sito internet del Movimento dei Cristiano Riformisti: www.cristianoriformisti.it